Possesso – parte II

Sentì il portone aprirsi, poi lo scalpitio dei tacchi della sua padrona che saliva le scale; con affanno e timore si recò davanti al portone, si lo aprì e si accucciò in attesa. Lo splendido profilo della sua padroncina si stagliava contro la luce dell’atrio, il suo inconfondibile e forte profumo pervase le narici di Matteo. Lei fece alcuni passi, poi, con un calcetto assestato sul petto del ragazzo, lo fece scostare. “Ciao tesoro”, bisbigliò, per non svegliare la madre, e poi scoppiò a ridere. Dal modo in cui camminava e apriva le varie porte non sembrava essere totalmente sobria; era reduce da una serata in discoteca con il ragazzo, ed era quantomeno frastornata. Entrò in camera, seguita a quattro zampe dal suo schiavetto, il quale aspettava l’inesorabile verdetto sul lavoro svolto.

Accese la luce, si sedette sul letto, si spostò indietro i capelli (mossi e scomposti) ed iniziò a fissare il ragazzo, ancora sulla porta a quattro zampe, con occhi socchiusi e un beffardo sorriso accennato. Sospirò, fece per slacciarsi la slip dello stivale destro, ma poi disse lui, con tono di voce alterato: “Beh, cosa fai lì imbambolato? Coglione, vieni a togliermi gli stivali”. Detto ciò il ragazzo corse ai suoi piedi: sentì un forte odore di cuoio e sudore che si mescevano al profumo (gli sembrò anche di riconoscere il sottile e nauseante odore dello sperma). Lei iniziò a dargli degli scappellotti non troppo forti sulle guance e sulla testa, ridendo a tratti e singhiozzi, intervallati da incitazioni: “Dai”, “Forza!”, “Più forte!”; quando il ragazzo fu sul punto di sfilarle uno stivale, gli arrivò un calcio deciso e intenso sotto la mascella, che lo fece traballare. Fu un’impresa ardua riuscire a sfilare lo stivale fra schiaffi e calci, ma alla fine vi riuscì: una vampata del forte odore di nylon e di sudore arrivò improvvisa, provocando un’ondata di calore e di eccitazione nel ragazzo.”Bacia!”, comandò: non se lo fece ripetere due volte e, mentre baciava il suo piedino caldo e odoroso, si beccò un altro calcio seguito dalle risate sgraziate e sgolate della ragazza. Iniziò a stuzzicarlo con il tacco dell’altro stivale, che finì col calpestare in maniera brutale la mano del povero Matteo, il quale cercò di reprimere il grido dell’intenso dolore inflittogli, mentre lei roteava e premeva il piede.

Quando entrambi gli stivali furono tolti, Federica si alzò e si diresse verso la finestra, ai lati della quale giacevano tutte le sue scarpe ordinate. La vista di quei piedi che camminavano sul pavimento inarcandosi lo riempirono di eccitazione, interrotta soltanto dalla paura: ovunque passava, lasciava le impronte umide dei suoi piedi sul parquet, che svanivano poco dopo. “Oh, ma che bravo”, disse, facendole cadere con un calcio e ridendo: assistendo alla breve distruzione del suo lavoro, il ragazzo venne invaso da un istinto di rabbia, che a stento represse, seguito prontamente da una intensa eccitazione. Poi iniziò a tirargli scarpe in faccia, ridendo ogni volta di pancia, ordinando gli di riportarle, come un cane, con la bocca. E infine accadde l’inevitabile.

La padroncina prese una decolté nera, vide che non era pulita e la annusò. “Che puzza!”, disse. Il ragazzo non fece nemmeno in tempo a vedere la sua reazione, che subito si ritrovò la ragazza addosso, che lo picchiava con una violenza inaudita e quasi scimmiesca: “CHE E’ QUESTA PUZZA, EH?”, ed arrivarono sulla testa dello schiavo diverse serie di schiaffi forti, rapidi e frequenti, “ COGLIONE”, e una sberla,” IDIOTA”, e un manrovescio assestato con decisione sull’occhio destro, “ FROCIO DI MERDA”, e un calcio sulla schiena che lo face cadere in terra. Iniziò a calciarlo e calpestarlo con durezza, mentre si era chiuso a riccio per difendersi, ansimante. Lo girò su un fianco ed iniziò a colpirlo con le sue magnifiche gambe all’altezza dello stomaco: respirava a stento e aveva la testa che ronzava per i colpi ricevuti. Lo tirò per i capelli, continuò a schiaffeggiarlo e provocò la fuoriuscita di sangue quando lo colpì sul naso con una forza incontrollata; iniziò a colpirlo anche con delle scarpe: “COGLIONE, FROCIO, BUONO A NULLA, MERDA UMANA!”. Poi lo costrinse ad alzarsi e gli diede un calcio sui testicoli, che lo fece accasciare sul pavimento. Fra i lamenti implorava pietà, che sapeva non sarebbe arrivata. Diverse volte fu fatto rialzare e preso a calci sui testicoli, non riusciva più a respirare per il forte dolore, e per le fitte che lo attanagliavano. Alla fine iniziò a piagnucolare: “Padrona, perdono, basta, pietà”. Alla fine anche Federica si accucciò a terra esausta, ed iniziò a ridere come una forsennata. Lo schiavo dolorante dovette allora cercare di spogliarla e metterla a letto, ma non vi riuscì e, fra schiaffi ed insulti, Federica si mise a letto da sola. Lui si limitò a coprirla, poi tornò a casa, reggendosi a malapena in piedi e barcollando.

L’indomani, dolorante e con terribili fitte ai testicoli, si avviò a casa della padroncina, dove avrebbe dovuto rimettere ordine nel caos della serata precedente; aveva il timore di una nuova punizione, ed era pieno di imbarazzo e frustrazione. Quando Federica aprì la porta di casa, a lei si presentò un ragazzo esausto, spento, con un occhio gonfio e pieno di graffi ovunque, che si muoveva a scatti per i dolori. Ne provò pena, e improvvisamente si addolcì: “Piccolo, cosa ti ho fatto!”, disse con voce commiserevole accarezzandolo. Lui non ce la fece nemmeno ad inginocchiarsi ai suoi piedi, anche se avrebbe desiderato sopra ogni cosa baciarglieli. Continuò ad accarezzarlo, poi lo fece entrare in camera e sedere sul letto accanto a lei: nel rivedere la camera piena di scarpe, vestiti gettati all’aria e calze, sentì una vertigine che gli fece girare il capo. “Sono stata proprio cattiva ieri sera, scusami tesoro mio!”, disse, accarezzandolo ed eseguendo un dolce massaggio sulla schiena. Nella sua voce c’era un sincero pentimento, e questo fece emozionare anche il ragazzo. Lo portò in bagno, dove medicò le sue ferite e i vari graffi (lui non aveva avuto il tempo per farlo), nonostante egli si fosse inizialmente opposto: non amava essere “servito” dalla sua padroncina! Ad un tratto, mentre erano davanti allo specchio, lei reclinò dolcemente il capo sulla sua spalla: nel sentire i morbidi capelli di lei scendere sulla sua schiena, e le soffici e calde guance toccare la sua spalla, improvvisamente si decontrasse e si abbandonò a quel raro momento di tenerezza.

Li sorprese la madre, meravigliata, che prontamente Matteo salutò: lo guardò con occhio indagatore. Quando rimase da solo in bagno, sentì Martina rimproverare la figlia per averlo ridotto in quelle condizioni, per averla svegliata durante la notte e per essere tornata a casa in quello stato. “Si trattano così i tuoi amichetti?”, disse, mentre passava scalpitando sul corridoio: c’era un sottile velo di ironia in quella frase, visto che Matteo era un “amichetto” un po’ particolare.

Alla fine Federica chiese a Martina di riportare il poveraccio a casa in macchina: accettò, ma prima lo portò a fare la spesa con lei. Si sentì veramente in imbarazzo, per mostrarsi in quello stato davanti alla madre di lei, la quale ogni tanto lo guardava con i suoi splendidi occhi e lo interpellava con la sua voce calda e le sue labbra sensuali: “Piccolo, ti fa ancora male la schiena? L’ho detto a mia figlia che deve essere meno aggressiva!”, “No, Martina, non ti preoccupare, non è nulla…”. Nelle domande di Martina si intravedeva allo stesso tempo l’incomprensione per la sua condizione di schiavo, una fine derisione umiliante e anche una sottilissima soddisfazione che la sua vanità femminile provocava. Lui continuava a guardare come imbambolato le mani che dolcemente e scioltamente scivolavano sul cambio, ma l’eccitazione che inevitabilmente sorgeva veniva soffocata immediatamente dai dolori ai testicoli.

Si fermarono a fare la spesa: “Tesoro, tu puoi rimanere in macchina se vuoi!”, disse, sapendo che in questo modo la avrebbe senza esitazione accompagnata. Portò per lei il cestino, la seguì docilmente lungo gli scaffali assecondando ogni sua esigenza. I movimenti della donna, che forse aveva notato lo sguardo del ragazzo dietro di lei, si fecero volutamente più sensuali. Alla fine si offrì di pagare lui, al che la donna simulò un rifiuto di cortesia: “No, guarda che mi arrabbio, sono diverse volte che paghi tu”, si lasciò scappare una risatina e lo ringraziò: “Grazie, cucciolo!”. Quando lo lasciò a casa, al momento di salutarlo gli fece una sensuale carezza sulla spalla: quel gesto, unito all’intenso odore di pelle e di creme emanato dalla donna, di nuovo fece eccitare il giovane, ma le intense fitte di dolore di nuovo repressero quell’istinto. Lo salutò, con quello sguardo rilassato e quel sorrisino ironico con cui era solita fissarlo.

Se ne andò intenerito, emozionato e frustrato ad un tempo. Ancora non sapeva che la padrona aveva in serbo per lui una sorpresa molto piacevole.

Possesso

Federica era una bella ragazza di 18 anni; Matteo, un ragazzo di 21 anni, era stato sedotto dal suo corpo armonioso, dai suoi lunghi capelli corvini e dai suoi seni sodi e abbondanti al punto giusto, fino a perdere la testa per lei. Da subito era stato particolarmente servizievole nei suoi confronti, iniziando ad esaudire le sue richieste incondizionatamente, pur accorgendosi che le sue attenzioni non venivano ricambiate; infatti si era fidanzata con un ragazzo di 25 anni, Diego, senza che Matteo rinunciasse ad obbedirle ciecamente. La ragazza aveva così approfittato della situazione, e le richieste su Matteo erano diventate sempre più impertinenti e gravose: arrivava fino a farsi portare a casa delle pizze per lei e per Diego, per poi licenziarlo (facendo capire più o meno esplicitamente che la serata sarebbe trascorsa in intimità fra loro due).

Poi una volta Matteo le aveva confessato che nel servirla si sentiva realizzato, eccitato e che non avrebbe desiderato altro dalla vita. Così, senza alcun atto esplicito, Federica era diventata la sua padrona: aveva iniziato col farsi fare regali, col farsi accompagnare a fare shopping e ad usare Matteo come autista. Poi aveva iniziato a beffeggiarlo in maniera subdola, ad acuire la sofferenza che sapeva di provocargli ogni volta che gli raccontava delle sue serate con Diego. Una volta, mentre era seduta sul suo motorino, ed indossava una lunga gonna e un paio di splendidi infradito rosa, notando che le guardava fugacemente i piedi, gli aveva chiesto di baciarglieli e lui, senza farselo ripetere, si era accucciato ai suoi piedi e glie li aveva baciati dolcemente e delicatamente.

Da allora in poi i sabati sera di Matteo si svolgevano sempre allo stesso modo: era costretto a sistemare la cameretta della sua padroncina, a prepararle il letto per la notte, a sistemare e lustrare le sue scarpe (che giacevano sovente ammucchiate dietro la tenda) e i suoi stivali. Poi, quando aveva terminato, inizialmente lasciava la casa, senza sorpresa della madre (che era al corrente della situazione, e che, talvolta, ne approfittava); ma in seguito, col passare del tempo, Federica gli aveva chiesto di aspettarla al suo rientro dalla serata (di solito passata a ballare), in modo da farsi massaggiare i piedi e da divertirsi a punire lo schiavo qualora non avesse svolto correttamente i compiti assegnatigli. Le punizioni consistevano in schiaffeggia menti particolarmente intensi (di cui Federica era diventata esperta) a frustate eseguite con la sua cintura borchiata.

Come ogni sera Matteo stava pulendo il pavimento, mentre Federica si stava cambiando, gettando i panni sporchi a terra addosso allo schiavo. Come sempre lo fissava con un sorrisino beffardo, e di tanto in tanto lo colpiva con un calcetto:

“Devo sbrigarmi, fra un po’ arriva Diego! Pulisci più in fratta te. Stasera ci divertiremo!”

Per umiliarlo gli infilò un calzino sporco in bocca, e lo colpì con uno schiaffo, ridendo. Poi gli si accostò, lo accarezzò e gli sussurrò all’orecchio:

“E’ buono vero? Questa sera dovrai pulire tutte le mie scapre, dopo averle annusate e leccate una per una. Se quando torno le troverò sporche, lo sai quello che i faccio, vero? Ihihihi”

Tornò poco dopo con un paio di infradito rosa (sapeva che lo facevano impazzire), e, dopo avergli tolto il calsino dalla bocca, ne avvicinò uno alla sua faccia, tirandolo per i capelli; poteva intravedere la sagoma nerognola del piede di lei sulla scarpa. “Ecco la tua ragazza”, disse, “ne hai addirittura due, ma che marpione che sei ahahahahah. Questa sera vi lascio soli, mi raccomando non fate troppo gli zozzono ahahahahah”. Rideva di gusto e lo derideva, poi lo costrinse ad annusare la scarpa e glie la strusciò violentemente in faccia. “Bacia la tua ragazza!”: lui la baciò, e per tutta risposta gli arrivò un violento ceffone che lo fece vacillare.

“Si baciano così le ragazze, cafone che non sei altro? Baciala meglio!”

Matteo baciò la suola della scarpa, mentre la sua padrona la teneva premuta contro il viso.

“Bravo cicci, così si fa! Siete proprio una bella coppia.Ahahahahah!”

Intravide i fantastici piedini di lei, laccati di porpora, e sentì la sua eccitazione crescere. Lei lo schiaffeggiò con la scarpa, e si finì di preparare.

Quando il ragazzo suonò, Federica si accucciò nuovamente accanto a lui, lo baciò sulla guancia e gli sussurrò: “Ciao tesoro, io vado. Ci vediamo quando torno! Buon divertimento ihihihihi”

“Buon divertimento, padrona”, rispose lui sommessamente.

Ciò detto, gli porse il piede destro, su cui indossava una decolteè fuxia molto bella, che egli prontamente e delicatamente baciò.

Proseguì nella pulizia del pavimento, nel riassestamento dei panni e nella preparazione del letto, quindi si avvicinò alla montagna di scarpe, da cui proveniva un odore molto intenso. Si eccitò. Iniziò da un paio di stivali rosa, li slacciò, li annusò a lungo, per poi iniziare a succhiare i tacchi, leccare le suole e le punte ed assaporare la polvere che vi si era depositata.

“Matteo!”, si sentì chiamare dall’altra stanza. Era Martina, la madre di Federica, una donna sulla quarantina che si manteneva abbastanza bene fisicamente: aveva un viso piacente, occhi marrone chiaro, capelli lisci di un castano intervallato da colpi di sole, ma soprattutto due splendide gambe e due piedi stupendi (che per fisionomia ricordavano quelli della figlia), dalle dita affusolate e dalle lunghe unghie laccate di lucido, che facevano impazzire il povero Matteo.

“Matteo, mi puoi fare un favore?”

“Martina, io, veramente … dovrei finire di fare ciò che mi ha detto Federica, temo di non…”

“Dai, su, ma certo che finirai in tempo! Vieni un secondo!” Disse lei con voce calda e tranquilla. Lui sapeva di non avere scelta, e a malincuore si dovette recare in salotto, dove lei giaceva sdraiata a piedi nudi sul divano, a guarda re la TV. “Fai il bravo, finisci di spicciare la tavola!”

“Si subito!”, disse lui.

Mentre spicciava la tavola, i suoi occhi cadevano sulle gambe di lei, sui piedi, le cui dita si muovevano sensualmente di tanto in tanto, e poi su un paio di zoccoli che giacevano ai piedi del divano. Lei se ne accorse attraverso il riflesso della porta-finestra, e chiese:

“Cosa stai guardando, cucciolo?”

Imbarazzato, pronunciò un rapido “niente” e si rimise a capo chino sulle sue mansioni. Lei sapeva di metterlo in imbarazzo e ogni tanto si divertiva a fare domandine di questo tipo.

Non fu la prima volta che dovette interrompere il lavoro: lo chiamò altre due volte, una delle quali prima che lei si coricasse. La raggiunse in camera da letto, dove si stava spalmando una crema sui piedi: “Puoi prepararmi il letto?”, “Certo”,”Ma che tesoro che sei, grazie”, e continuò a spalmarsi la crema sui piedi, sapendo di provocare eccitazione in lui. Nella camera si respirava un provocante odore di crema, collants, cuoio e della pelle della donna.

Quando questa tortura finì, tornò ai suoi compiti nella camera della figlia, realizzando che ormai non avrebbe fatto in tempo a finire di pulire tutte le scarpe (era comunque impossibile finire il lavoro in una notte). Quando la padroncina sarebbe tornata, probabilmente gli sarebbe spettata una dura punizione: nel caso in cui fosse tornata ubriaca,poi, la violenza con cui si sarebbe avventata su di lui sarebbe stata incontrollabile. E la punizione sarebbe stata dura in ogni caso: l’idea lo eccitava e lo impauriva al tempo stesso, l’attesa lo lacerava.

Diventare un leccapiedi

Venere (questo il suo nick) era una donna sui quarant’anni, campana, bella e affascinane quanto crudele; il suo compito sarebbe stato quello di addestrare Marco un ragazzo poco più che ventenne, per farlo diventare un perfetto leccapiedi. Marco non aveva mai avuto esperienze in campo femdom, ma da sempre aveva sentito la vocazione al servizio delle donne e alla totale sottomissione alle loro estremità.

Le prime volte che si incontrarono si sentì in imbarazzo, e non seppe come comportarsi, ammaliato dalla suprema bellezza della sua padrona, e stregato dai suoi modi di fare estremamente signorili. Da subito la sua padrona mise in chiaro alcune cose: da quando fosse entrato nella sua casa, e ogni qualvolta fosse rimasto al Suo cospetto, gli occhi di lui non avrebbero potuto guardare altra parte del corpo se non le Sue divine estremità. Inoltre, ogni qualvolta lo schiavo avesse mostrato reticenza, sarebbe spettata a lei la decisione su come “convincerlo”.

Iniziò così il suo percorso di sottomissione. La prima cosa che dovette apprendere fu il baciapiedi: la sua padrona gli insegnò pazientemente ad inginocchiarsi e a baciare dapprima le calzature (di qualunque sorta) partendo dal collo e scendendo gradualmente verso la punta. Inizialmente Marco era riluttante a baciare le scarpe impolverate, sporche o maleodoranti, e la punizione più comune che la sua padrona gli infliggeva era il calpestamento della mano. Pian piano si abituò a baciare ogni calzatura di qualsiasi stato di pulizia. Fu presto assegnata allo schiavo anche la pulizia e la cura delle calzature della padrona, la cui scarpiera doveva essere tenuta costantemente pulita e in ordine; spesso lo schiavo dovette passare ore a lucidare gli stivali della padrona mentre questa intratteneva il suo compagno nella camera. Quando la padrona lo ritenne opportuno permise allo schiavo di passare ai piedi:  insegnò lui a baciare delicatamente le sue dolci e vellutate estremità, partendo dalla punta delle dita (due baci per ognuna), salendo poi gradualmente alle unghie (che spesso erano smaltate d’un nero lucido o d’un rosso vivo), al dorso del piede, il tallone, il collo fino alla caviglia. Se la padrona lo desiderava, si distendeva sul divano adagiando le sue gambe divine su uno dei braccioli, in modo da tenere i piedi sospesi: era il segnale che lo schiavo poteva passare a baciare le suole, continuando fino a quando un calcetto datogli sulla fronte non gli intimava di fermarsi. Fu durante questa fase del suo percorso che Marco iniziò ad assaporare la frusta: spesso infatti i suoi baci lasciavano un sottile velo di saliva sui piedi della padrona, e la punizione per tale mancanza era costituita da una serie da 10 frustate o di un ceffone energico sulla guancia; iniziò a sperimentare la crudeltà della sua padrona, che alle sue suppliche rispondeva accentuando ancora di più la violenza dei colpi.

Col passare del tempo le punizioni divennero meno frequenti (per l’esperienza sempre crescente dello schiavo), ma più intense. Lo schiavo dovette iniziare ben presto ad utilizzare la lingua per la pulizia delle scarpe: per stivali o scarpe chiuse in generale non fu difficile imparare a rimuovere la polvere che si depositava sulla parte posteriore, nonostante la iniziale riluttanza per i sapori sgradevoli che tale azione comportava. Il sapore del cuoio, che lo eccitava fino all’inverosimile, era per lui una adeguata ricompensa. La padrona concesse lui di evitare le suole (che per adesso puliva usando i suoi capelli come tappetino), ma non di succhiare i tacchi, che si divertiva ad infilare nella bocca del povero ragazzo e a muovere ritmicamente. Per quanto riguarda i sandali l’apprendimento risultò più difficile: la sua padrona non avrebbe in alcun modo tollerato che la sua lingua potesse sfiorare anche minimamente i suoi piedi, e passare con la punta della lingua i lacci sottili non fu di immediato successo. La punizione per aver deviato dai lacci dei sandali ed aver toccato appena la pelle del piede destro con la punta della lingua fu un calcio sui testicoli dato con le ginocchia: lo schiavo non dimenticò mai il dolore lancinante che ne seguì, lasciandolo senza respiro per alcuni secondi.

Prima di avere l’onore di leccare le divine estremità di Venere, lo schiavo avrebbe dovuto abituarsi all’odore dei piedi: fino ad allora aveva soltanto annusato una leggera fragranza di cuoio, che poteva arrivare al massimo all’odore (frammisto di gomma e salsedine) che i sandali lasciavano sulla pelle del piede durante le calde giornate d’estate. Adesso la padrona lo voleva avvezzare ad odori più forti: dapprima lo costrinse ad annusare senza pausa gli stivali dopo che erano stati indossati (appositamente) per ore nel corso di lunghe passeggiate; poi, dopo avergli messo un guinzaglio, lo agganciò a corto alla sua cavigliera in modo da mantenere il viso del ragazzo costantemente a pochi centimetri dal suo piede, mentre si riposava sul letto (e gli inferiva di tanto in tanto dei calcetti). La padrona inventò poi tecniche di tortura più raffinate, come il legare le scarpe direttamente sulla faccia dello schiavetto e lasciarlo così per ore a svolgere le sue mansioni; oppure il legargli le sue calze usate sul naso e nella bocca. All’inizio ciò costituì un vero supplizio, che a volte superava l’eccitazione da questo scatenata. Il tutto era reso ancora più degradante dalle umiliazioni e dalle risate che la padrona non gli risparmiava, e dalle frustate che di tanto in tanto vibravano sulla sua schiena nuda.

Finalmente fu pronto a svolgere il compito da lui lungamente agognato: il feet licking. Inizialmente la padrona lo fece cominciare con piedi puliti, insegnandogli a leccare caviglia, dorso e dita; poi passò alle suole, che richiesero molte più attenzioni e pratica: giusta pressione della lingua, leccate compatte e soffici, salivazione moderata e soprattutto frequenza adeguata. La pulizia fra le dita richiedeva invece l’uso della punta della lingua, a colpi rapidi e decisi. Il toe sucking risultò invece di più facile attuazione: doveva infatti muovere la testa su e giù per alcuni minuti, ad ogni dito, ed aspirare delicatamente. Per lo schiavo fu quasi un’estasi mistica, il sentire le unghie della sua Signora sfiorare il suo palato, il calore e il sapore delle dita echeggiare nella sua bocca. Il passo successivo fu la pulizia dei piedi sudati: già abituato all’odore forte, ora lo schiavo non incontrò difficoltà ad assaporare il sudore acre e salino, e nutrirsi avidamente e devotamente dell’essenza dei piedi della sua padrona, come si trattasse di nettare divino.

Nel giro di alcune settimane il ragazzo aveva assunto una esperienza tale da poter essere considerato un leccapiedi professionista. Ma le prove decisive e più difficili sarebbero dovute ancora arrivare, e lui non ne era consapevole.

Venne infatti costretto anche a baciare i piedi del compagno della padrona , pur se riluttante a servire un maschio: le punizioni per la sua reticenza erano infatti al solito dure, andando dai calci sui testicoli, ai ceffoni, alle frustate. La padrona si divertì poi a cospargersi i piedi di olio, panna, vino e bevande più disparate e a costringere lo schiavo a leccarli.

Una volta la padrona si sedette in divano col suo compagno, ordinando allo schiavo di accucciarsi ai loro piedi; poi slacciò i pantaloni al compagno ed estrasse il suo membro in erezione; fece avvicinare lo schiavo a pochi centimetri dal glande pulsante, e disse: “guarda che bel cazzo, guarda com’è più grande del tuo, questo è un vero cazzo, annusalo, annusa bene tesoro, abituati all’odore hihihihi”. Poi iniziò a palpeggiare con le sue bellissime mani il membro del compagno, che mugolava di piacere; d’un tratto si interruppe, porse la mano aperta davanti alla faccia dello schiavo ed ordinò di leccarla. Aveva le dita lunghe e affusolate, e le unghie tinte di porpora. Egli obbedì, ed iniziò a passare la sua lingua sul palmo, poi fra le dita, assaporando il liquido salino e trasparente che il pene aveva iniziato ad emettere. Poi fu ordinato al ragazzo di togliere i sandali rosa che la padrona indossava, dopo di che questa iniziò ad eseguire un footjob all’uomo, muovendo ritmicamente e delicatamente le sue estremità, fino a quando questo non venne emettendo un grido di piacere, inondando di sperma il collo e il dorso dei piedi della sua compagna. La padrona continuò a strofinare le suole dei suoi piedi sul glande dell’uomo, raccogliendo i residui di liquido; poi fece cenno col dito di avvicinarsi al ragazzo, sorridendo beffardamente.”Ti piaciono i miei piedini?” – sussurrò all’orecchio -“Si padrona”-“Allora avrai l’onore di ripulirli hihihihi”. Lo schiavo non ebbe scelta, ed iniziò a leccare via lo sperma residuo, iniziando a leccare prima il collo, scendendo fino alle dita, succhiando queste una ad una, mentre i due lo deridevano e a volte lo picchiavano delicatamente con la frusta. Intanto il sapore dello sperma, acido e salato, patinava la sua bocca, riempiendolo di disgusto e allo stesso tempo di eccitazione. Alla fine leccò le suole, mentre la sua padrona distendeva le dita dal piacere, colpendo di tanto in tanto il ragazzo con l’altro piede, sospirando mentre si rilassava.

Questo fu l’epilogo del percorso di addestramento: solo ora si sentiva pienamente appartenente alla sua padrona, ai suoi piedi, e sentiva un immenso piacere nell’esaudire gli ordini della sua Dea e nel suscitare il suo gradimento. Era diventato un vero schiavo.

Age Verification

By clicking enter, I certify that I am over the age of 18 and will comply with the above statement.

Enter

Or

Exit
Always enjoy responsibily.