Dalla Russia con perfidia

Piedi KarinaLa sua matrigna russa, Alena, lo aveva lasciato, vestito da sissy maid, a pulire la cucina.
Da quando aveva perso entrambi i genitori naturali, Emanuele era andato incontro ad un atteggiamento sempre più freddo e cinico da parte di quella bella signora russa, che pure, quando il padre era ancora in vita, sembrava averlo accolto come un figlio.
Ora aveva appena raggiunto la maggiore età, ed era diventato uno schiavo, un giocattolo nelle mani della sua matrigna e della sorellastra, Natasha (quest’ultima, ancora fanciulla, ma resa viziata dal modo in cui la madre la aveva cresciuta).
Al cospetto delle Dee, doveva sempre stare in ginocchio, non usciva mai di casa ed era costretto a svolgere lavori domestici gravosi, accanto alla giovane inserviente filippina, Tala. Ad ogni minima mancanza, era punito nel modo che la sua matrigna riteneva più opportuno. Gli schiaffi, i calci e gli sputi erano all’ordine del giorno.
Chiunque, dall’esterno, avrebbe giudicato tutto ciò come violenza, vessazioni e abusi. Non sapendo che, nel suo intimo, Emanuele era ben lieto di servire la sua bellissima matrigna, e gioiva delle continue umiliazioni alle quali era sottoposto.
Anche il dover sottostare ai capricci della sorellastra, che pure era ancora una bambina, non faceva che aumentare quel senso di eccitazione che faceva di lui uno schiavo per natura: d’altra parte, anche ciò rientrava neglio obblighi che, nel tempo, Alena gli aveva imposto con freddezza e distacco.
La bella donna dell’est, ora benestante e in carriera presso l’ambasciata, aveva avuto gioco facile in questo: quando il ragazzo era ancora un virgulto, agli albori dell’adolescenza, lei aveva scoperto una gran quantità di materiale virtuale a tema Femdom in una cartella del PC: pur non anvendolo mai detto apertamente, aveva sfruttato a suo vantaggio, con un acume e un calcolo tipicamente femminile, la debolezza del ragazzo.
Ora, totalmente umiliato e degradato, era un semplice oggetto ad uso e consumo di lei, e un giocattolo per sua figlia.

Piedi BambinaLa bambina era quasi una Barbie in carne ed ossa: bionda e bella come la mamma, amava vestirsi con vestitini rosa e tingersi le unghie di mani e piedi di uno smalto vuola con i brillantini. Aria di superiorità e sufficienza, occhi azzurri, amava farsi preparare la colazione dal suo fratellastro, schiaffeggiandolo in continuazione, anche per gioco. Le piaceva truccarlo come un bambolotto, e lo usava spesso come tale, facendolo baciare con le sue bambole.
Si faceva da lui chiamare “principessa”, e spesso gli metteva i piedi in faccia, facendoglieli annusare.
Lo usava anche come pony, facendosi portare in giro per la casa. Talvolta doveva essere la madre a porre un freno al brio giovanile della bambina.
La bellezza di Alena era, per il ragazzo, eterea e irraggiungibile, visto che lei, degnandolo quasi nemmeno di uno sguardo, non gli permetteva il contatto diretto con il suo corpo, non fosse per farsi baciare scarpe e piedi quando rientrava in casa.
Per disciplinare la sua sissy, le aveva imposto una chastity built: per Emanuele, ribattezzato Taty, questo era il fardello più pesante da portare, dati i bollenti spiriti dovuti all’età e agli ormoni in circolo, e al fatto di avere una gnoccona di un metro e novanta come matrigna.
Alena, dagli occhi di ghiaccio, sapeva passare da un atteggiamento freddo, distaccato e algido a uno deridente e umiliante, a seconda di come le girava: nel secondo caso, non si risparmiava di ricordare al ragazzo la sua scarsa virilità, il suo fisico gracile e di aspetto non gradevole, e il fatto che sarebbe stato per sempre un essere inferiore alla sua completa mercè.

Piedi Russa
Per umiliarlo ancora di più, e per ribadire la sua superiorità slava, aveva iniziato col tempo ad impartirgli gli ordini in lingua russa. Il povero Emanuele, quando non capiva, veniva sgridato e schiaffeggiato: di necessità virtù, pian piano aveva assimilato i comandi della matrigna e della sorellastra, e scattava per esaudirli.
Sventolava spesso la chiave della gabbia di castità, appesa ad una cavigliera oppure alla collanina, davanti alla faccia del ragazzo, ricordandogli di avere il controllo assoluto sulla soddisfazione dei suoi istinti sessuali. La castità poteva durare anche settimane, a discrezione della matrigna. La soddisfazione dei bisogni sessuali avveniva nel seguente modo: una volta liberato il membro di Taty, che istantaneamente diventava turgido, egli aveva il permesso di masturbarsi, in ginocchio sul pavimento e con lo sguardo rivolto in basso, tutto sotto lo sguardo fisso e glaciale, a tratti beffardo, della padrona, che a volte batteva la punta della scarpa sul pavimento, come a comunicare di fare rapidamente, oppure faceva commenti sulle dimensioni del pene di Taty.

Piedi BambinaQuando finalmente lo schiavo schizzava sul pavimento, la matrigna schioccava le dita e indicava in basso: era il segnale che lo schiavo doveva provvedere a pulire il frutto della sua agognata concupiscenza con la lingua. Si accucciava e iniziava a leccare ogni goccia, mentre lei gli premeva la scarpa in testa per umiliarlo ancora di più. Finita la pulizia, il pene veniva di nuovo recluso a forza nel suo angusto guscio, non sapendo quando sarebbe potuto tornare di nuovo libero.
Accadeva raramente che anche Tala, la servetta filippina, venisse coinvolta nelle umiliazioni della povera Taty. Quando Alena era di buon umore, faceva mettere a Tala il sedere sulla faccia del ragazzo, che si masturbava fino a schizzare sui piedi, odorosi e sudaticci, di questa. Poi, ovviamente, li doveva ripulire con la lingua. In tali frangenti, la pena dello schiavo era resa leggermente più piacevole.
Presto Alena aveva portato un compagno stabile a casa loro. Emanuele, detto Taty, aveva dovuto iniziare a servire anche lui, che si era reso sempre più complice della compagna nel dominare il figliastro.

Divina Giulia e Padrona Jasmine

Divina Giulia 3Cammino a fianco delle mura aureliane, un caldo pomeriggio di estate. Non si incrocia un’anima. La Divina mi attende. Forse sono in ritardo, e non so dove devo andare. Mi fermo sotto la pensilina del bar, nell’attesa che la Divina mi dia l’OK per raggiungere la location. Ho la gola secca a causa dell’arsura, quindi penso di andarmi a prendere qualcosa al bar alle mie spalle. Il mio pensiero viene interrotto dalla chiamata della padrona: al telefono, mi rimprovera per il ritardo. Ho perso la cognizione del tempo, non so di quanto ho fatto tardi. Dice che si deve cambiare: “I piedi ti piacciono odorosi? Allora non me li lavo!”. La sua voce è calda e accattivante.
La serranda del doungeon è socchiusa, mi devo accucciare per entrare. Non appena alzo gli occhi, mi trovo di fronte due autentiche Dee, che hanno gli occhi vitrei puntati su di me. Mi porgono le mani e le bacio umilmente. Sono teso, e la Dea Giulia mi fa notare che ho lasciato aperta la chiamata al telefono. Mi fanno spogliare: rimango in mutande, in ginocchio, con le rose in mano. Divina Giulia me le prende dalle mani, poi arriva Jasmine che, rapida, mi mette il collare, al quale viene agganciato un guinzaglio. Il mio sguardo non può che andare ai bellissimi piedi di Jasmine, il cui odore mi inebria le narici.
Quasi intuendo le mie necessità, la Divina mi fa abbeverare in una ciotola. Bevo l’acqua con la lingua, da bravo cane, mentre la padrona continua a riempire.
Le Dee si divertono poi a lanciare una pallina, che devo rincorrere a quattro zampe, prendere con la bocca e riportare. Nel fare ciò, il guinzaglio si impiglia nello specchio, che per poco non mi cade addosso; vengo salvato dalla magnanimità di Padrona Jasmine.
Come seconda prova, vengo fatto sdraiare sul pavimento, e mi ritrovo con i piedi di entrambe in faccia. L’odore è sublime: più pungente quello di Jasmine, più greve quello della Divina.
I piedi di Jasmine scorrono nudi sulla mia lingua, facendomi degustare il salato del suo sudore. Giulia indossa invece un paio di calze, che sfregano morbidamente sulle mie guance. Vedo gli sguardi imperiosi delle Padrone puntati su di me. “Vedi di leccare bene! Guarda che abbiamo la frusta!”, minaccia Jasmine.
La divina mi ordina di masturbarmi. Il mio inutile verme stenta ad assumere consistenza, nonostante la Divina sia in attesa con un righello in mano: vuole mettermi di fronte alla limitatezza della mia virilità. Le Divine iniziano a conversare disinvoltamente fra loro, nella vana speranza che il mio membro inutile possa prendere vigore.

Divina Giulia
Poi la Divina mi fa adorare le sue scarpe rosse col tacco, che lecco avidamente. “Prendimi l’accendino a destra!”, mi ordina. Naturalmente lo cerco alla mia sinistra. “DESTRA!”: la padrona mi sta facendo proprio perdere la testa. Finalmente lo trovo, e accendo la sigaretta della padrona.
Di fronte alla criticità della situazione, Divina Giulia cerca di ricorrere agli estremi rimedi. Mi fa sedere sul piatto della doccia, e inonda il mio volatile barzotto con un getto caldo del suo nettare divino. La visione paradisiaca della patata della Dea, unita al tepore del suo nettare caldo che scorre su di me, fanno aumentare la rigidità del pene. Ma non è abbatanza.
Mi lasciano lavare, ma nella fretta e per il black-out emotivo che la divina mi ha indotto dimentico di chiudere lo sportello. La Padrona me lo rimprovera.
Abbassano anche le luci, credendo che quel briciolo di virilità che alberga in me si possa risvegliare. Tutto è vano: sto deludendo le mie Padrone, che se la ridono. “E’ così che servi la tua Dea? Ma che delusione che sei!”, dice Giulia.

Divina Giulia 5Si mettono ai miei fianchi, mentre io in ginocchio continuo a masturbarmi: sembra che il mio membro non ne voglia sapere, come se la loro Divinitàlo avesse paralizzato. La Dea mi mette il suo sedere in faccia, ordinandomi di annusare: la fragranza dell’ano divino finalmente sortisce i suoi, seppur lievi, effetti.
“Se non ti si addrizza nemmeno così significa che sei frocio, e ti inculiamo!”, minaccia Giulia, mentre adesso è Jasmine che mi fa adorare il suo culetto. Poggia il suo piede nudo sul mio inguine, ed esplodo in un’eiaculazione in onore delle mie Dee.

“Finalmente!” – esclama Giulia – “hai visto, le minacce servono a qualcosa allora! Jasmine, ci serviva il tuo culo per farlo venire!”.
Concludo l’opera ripulendo, su ordine di Giulia, il prodotto della mia concupiscenza. “Ma guarda che dolce cagnolino”, mi saluta Jasmine. Ci salutiamo, con la speranza di rivederci presto.

Domiziana – parte V

piedi KarinaLa serata precedente si era tenuta la festa delle scuole, durante la quale Domiziana aveva conosciuto un ragazzo. Aveva ballato con lui per tutta la sera, poi si era appartata fuori, in intimità. Di quel momento di intimità, Domiziana aveva mantenuto un piccolo regalino da portare al suo schiavo, alla cena di Carolina dell’indomani.

Domiziana si alzò dal divano, e si diresse decisa verso il ragazzo, che aveva appena finito di nettare i piedi di Carolina. Gli sputò in faccia, allentandogli anche un ceffone.

“Fai schifo, leccapiedi di merda!”, e giù un altro schiaffone. “Ammazza che uomo!”, aggiunse, provocando l’ilarità delle altre. “Tu non sai nemmeno che significa essere un maschio, frocetto! Vero?” – “Si, padrona!”

“Carolina, per lo meno i piedi te li ha leccati bene?”

Carolina si afferrò la caviglia, guardando la pianta del piede: “Diciamo di si, dai! Almeno questo lo sa fare!”, disse, ridendo forsennatamente.

“Perché non ci fai vedere quell’affare inutile che hai fra le gambe?” disse lei. “Voi lo volete vedere?” chiese alle altre. Roberta: “Mah! Io non ci tengo proprio! Che poi siamo sicuri che ce lo abbia?”, disse.

Lui iniziò a provare paura: era già in mutande ed esposto allo scherno di tutte e tre le sue aguzzine. Ora avrebbe dovuto mostrare loro i genitali, non sapendo se oltre agli insulti avrebbe ricevuto anche calci sui testicoli.

“No, per favore. Pietà!”, provò a piagnucolare. Ma non vollero sentire ragioni, e dovette rimanere in ginocchio, nudo come un verme, dinnanzi agli sguardi deridenti e agli insulti di loro.

“Dove vorresti andare con quel coso?”, disse Roberta. “Non sarà nemmeno un decimo di quello di Simone”, aggiunse Domiziana. “Vediamo se lo sai usare almeno!”.

Venne posto di fronte a uno sgabello, in ginocchio, e gli ci venne fatto appoggiare il pene. Roberta glie lo schiacciò con la scarpa, provocando un urlo di dolore, prontamente soffocato da un ceffone. Carolina gli si mise dietro, per tenerlo fermo in caso si fosse dimenato per il dolore. Roberta continuò a schiacciare il membro dello schiavo, che divenne ben presto violaceo. “Mi vorresti scopare, non è così?” gli chiese Domiziana – “Rispondi!” – “Non ne sono degno padrona!”. La risposta non le piacque e lo colpì con un violento ceffone: “Non dire cazzate! Mi scoperesti, eh?”, urlò. “Si, padrona!”, dovette rispondere il ragazzo.

“Lo sapevo, porco schifoso che non sei altro. E secondo te io mi farei scopare da un essere lurido come te? Per di più con quel coso ridicolo che ti ritrovi fra le gambe? Guardalo!”, indicando il pene martoriato.

“Se stanno così le cose” – disse lei – ” scopati la scarpa di Roberta come scoperesti me. Avanti, fammi vedere!”.

Lui, rimasto attonito e ancora indolenzito, ebbe una smorfia di sofferenza. Cercò di far erigere il suo pene, schiacciato sotto la suola della scarpa di Roberta, e iniziò a sfregare tanto quanto gli era consentito dalle sue forze residue.

Il gesto meccanico gli costò non poca fatica, ma il suo pene stentò ad assumere durezza. Rimaneva morbido e floscio, e per di più la ragazza si divertiva talvolta a schiacciare più forte. Mentre il ragazzo eseguiva i movimenti, Domiziana e Roberta lo insultavano e lo riempivano di sputi, e Carolina iniziò a dargli dei morsi sulle spalle.

Ben presto gli venne l’affanno, e sentì una vampata di calore pervaderlo. In un ultimo, disperato sforzo, chiese il permesso di venire. Gli venne concesso, almeno quello, e un getto non troppo potente si riversò sullo sgabello e sulla suola della scarpa di Roberta.

“Che schifo!”, fu il commento di quest’ultima. Carolina invece lo fece alzare e gli diede una ginocchiata sui testicoli da dietro, facendolo piegare. “Guarda che casino che hai fatto, hai sporcato tutto lo sgabello. Adesso lo pulisci con la lingua!”

Piedi Arianna“Prima la scarpa” precisò Roberta; al che lo schiavo leccò il suo proprio sperma dalla suola, con colpi di lingua ampi e lenti. Ben presto la sua bocca si impastò di un sapore piccante, acre e disgustoso. Iniziò ad avere anche dei conati di vomito, repressi da un violento ceffone di Carolina. “Buono, vero? Questa è la tua cena! Ahahaha”.

“Inghiottilo!”, fu il perentorio ordine di Domi. Così fece, suo malgrado, e la smorfia di disgusto che ne seguì fece ridere tutte e tre le ragazze.

“Allora avevamo ragione, sul fatto che sei frocio!” disse Domiziana. “Proprio per questo motivo ieri sera ho pensato di portarti un regalo. Sai, mi sono divertita tanto con Simone.”

Che cosa aveva in serbo per lui? Cosa altro ancora avrebbe dovuto fare per compiacerla? Questi pensieri gli ronzavano in testa mentre lei era andata nell’altra stanza a prendere “il regalo”. Lo scoprì quando lei tornò, con sorrisino beffardo, tenendo in mano un barattolo chiuso. Dentro, un preservativo da cui fuoriusciva un filo di sperma giallastro.

“No, vi prego, questo no!” disse, spaventato quanto disgustato. Già ingerire il suo sperma era stato disgustoso: quel sapore pastoso e piccante gli riempiva ancora la bocca. L’idea di ingerire lo sperma di un altro, per di più del giorno prima, era ancora più vomitevole. Eppure era sottostato a tutte le umiliazioni e le vessazioni che gli erano state imposte, e non si sarebbe sottratto nemmeno stavolta.

“Noooo, dai! Ahahahah”, risero le altre due. Quando Domiziana svitò il coperchio del barattolo, uscì un odore nauseabondo di sperma stantio, tanto che la stessa si sventolò una mano davanti al naso, in un’espressione di disgusto.

“Senti che puzza, annusa! Forza!” disse, mettendogli il barattolo sotto al naso, e roteandolo per fargli vedere meglio il contenuto. “Dillo che era meglio la puzza dei miei calzini, eh?” lo sfottè Carolina.

Il ragazzo tossì e cercò di girarsi dall’altra parte, ma si beccò uno schiaffo da Domiziana, che lo afferrò per il mento e costrinse il suo sguardo verso il barattolo.

Fulminandolo con lo sguardo, gli ordinò, scandendo bene la parola: “L e c c a!”

A quel punto, Carolina lo afferrò per i capelli, reclinandogli il capo all’indietro. “Apri la bocca! Di più!” Mentre lui aveva la bocca spalancata, Domiziana ci fece percolare lo sperma, mentre le altre due guardavano incuriosite la scena.

Gli venne appoggiato il preservativo vuoto sotto al naso.

“Inghiotti!” disse Domiziana, chiudendogli la bocca con uno schiaffo sotto al mento. A fatica mandò giù tutto: il liquido era denso, freddo e dal sapore salato e amaro, molto più cattivo di quello ingerito in precedenza. Fu quasi per vomitare. “Ti piace la sborra, frocetto!” Iniziarono a canzonarlo, mentre lui era in ginocchio, nudo come un verme, con lo sguardo fisso al pavimento e il viso sporco dello sperma di un altro, ardente per la cocente umiliazione a cui era stato sottoposto.

“Mi sa tanto che ti dobbiamo trovare un ragazzo, frocio come te! Ihihihi”.

“Muoviti, vatti a lavare!”: a quest’ordine si alzò, credendo (e sperando) che la serata fosse finita. “Anzi, fermo!”, gli intimò Domiziana. “Vuoi sciacquarti la bocca? Anche se meriteresti di tenerti il sapore della borra di Simone fino a quando non torni a casa, tanto per ricordarti quanto sei sfigato.”

“Si padrona, vorrei sciacquarla se possibile.” rispose lui.

“Bene, Carolina è andata a pisciare, tra poco ti porta il colluttorio! “. Era ancora caduto nella diabolica trappola delle sue aguzzine. Poco dopo Carolina tornò con un bicchiere di plastica trasparente, contenete urina giallo scuro.

“Guarda che colore, sembra birra!” – “Che schifo! Daiiiii!” furono i commenti divertiti delle tre. “Sbrigati, bevila!”

“Padrona no, ti prego! Mi fa schifo!”

“Ti fa schifo? Ma come ti permetti? Hai bevuto la sborra di Simone, mi hai leccato i piedi sporchi e adesso il mio piscio ti fa schifo?” disse Carolina, scattando d’ira e ammollandogli uno schiaffone. “Domi, lo posso ammazzare di botte questo imbecille?” continuò, “Dai! Ahahaha”, rispose Domiziana.

Lo afferrò per i capelli e iniziò ad assestargli una serie di schiaffi sulla guancia destra: “De-fi-cie-nte!”, scandì, intervallando ogni sillaba con un ceffone. “BEVI!”, incalzò!

Riluttante e schifato, prese il bicchiere, e iniziò a bere a sorsi. Roberta, delicatina, non ce la fece ad assistere alla scena e si voltò a guardare la TV. Domiziana, con le braccia conserte, dominava dall’alto la scena, mentre Carolina, come di consueto, si assicurava che il ragazzo svolgesse il compito ordinatogli, pronta a intervenire qualora necessario.

Il sapore amarognolo dell’urina fece venire nuovamente i conati di vomito al ragazzo, ma rispetto a quello nauseabondo dello sperma assaporato poco prima gli sembrò quasi gradevole . Sorso dopo sorso, bevette tutto, sotto lo sguardo penetrante e umiliante delle due ragazze. All’epoca non esistevano i cellulari con le fotocamere, altrimenti sarebbe senza dubbio stato immortalato mentre si prestava alle umiliazioni impostegli. Ormai avrebbe fatto di tutto per la sua padrona, e, di riflesso, per le sue sadiche amiche: il suo orgoglio maschile era stato praticamente annientato durante il suo percorso di schiavitù.

Era ancora caduto nella diabolica trappola delle sue aguzzine. Poco dopo Carolina tornò con un bicchiere di plastica trasparente, contenete urina giallo scuro.

Domiziana – parte IV

Piedi

Le ragazze dopo l’ultima sera avevano preso gusto nel giocare a dominare il povero ragazzo, che, dal canto suo, nonostante l’imbarazzo e l’umiliazione che aveva provato non poteva fare a meno di degradarsi dinnanzi alle sue carnefici. Il fatto che ad imporgli tutto ciò era la sua Dea Domiziana rendeva il gioco ancora più eccitante.

Così chiesero a Domiziana di portare più spesso il suo cagnolino alle loro cene.

Non passò molto prima che ne organizzassero un’altra, questa volta a casa di Carolina. Questa volta erano in tre le ragazze, dato che Federica era fuori con il ragazzo Diego. Tutte e tre le commensali arrivarono un’ora prima della cena. Quando arrivò Domiziana con il suo schiavetto, questo venne fatto inginocchiare sullo zerbino e gli vennero fatte alzare le braccia tre volte in segno di adorazione delle padrone. Poi le tre si fecero baciare la mano. “In cucina!”, disse perentoria Carolina; il ragazzo si alzò di scatto, e si diresse rapido in cucina, beccandosi un calcio nel sedere dalla padrona di casa.

Appena entrato, il cuore gli iniziò a battere quando vide che tutte e tre le sue carnefici lo circondavano col sorriso beffardo. Gli venne fatto indossare il grembiule e la parrucca. “Bello!”, lo sbeffeggiò carolina, con dei buffetti sulla guangia; nel sentirle ridere, sentì il calore salirgli al viso, e la pressione sanguigna aumentare, provocandogli un’erezione. Domiziana se ne accorse, e col suo sguardo implacabile lo annientò, dandogli poi una ginocchiata sui testicoli che lo fece piegare: “Schifoso!”

Quando si riebbe, Carolina con uno schiocco di dita gli indicò il pavimento, facendolo inginocchiare. “Bacia il pavimento!”, gli disse. Contrariato, la guardò con aria supplichevole, come a chiedere se avesse dovuto farlo veramente. “Hai sentito quello che ho detto, o sei sordo?”, disse lei, quasi alterata: nello stesso tempo, Domiziana si avvicinò di scatto e gli diede un calcio nel sedere, mentre lui iniziò, seppur riluttante, a baciare le mattonelle. Carolina gli mise la scarpa sulla nuca, e lo schiacciò col naso per terra; poi, fece un gesto vittorioso con le braccia, che fece ridacchiare le due amiche. Lui continuava, col poco margine di manovra che il piede della dominatrice gli lasciava, a baciare il pavimento. Quando venne liberato, le tre decisero di fare un giochetto: avrebbero passeggiato per la stanza, e il loro cagnolino, a quattro zampe, avrebbe dovuto baciare il pavimento dove camminavano. A turno, ciascuna delle ragazze lo costringeva a seguirla goffamente a quattro zampe, spronandolo battendo le mani: “Forza! Più veloce cagnolino! Ihihihi!” Se non riusciva a stare al passo e a baciare dove camminavano, si beccava un ceffone o una zampata. Le altre due guardavano divertire, appoggiate al termosifone. La più spietata, sia con gli insulti che con le percosse, fu ovviamente Domiziana, col cinismo che la contraddistingueva e con la consapevolezza di avere il dominio assoluto sulla mente e sul corpo del suo schiavo. Roberta ci andava più leggera, ma si calava bene nella parte.

Quando questo gioco finì, le ginocchia del ragazzo erano doloranti, le guance infuocate e la testa gli ronzava per gli schiaffi ricevuti. Per farlo “riprendere”, Carolina gli porse i suoi piedi, che calzavano delle scarpe sportive bianche, e se li fece leccare. “Lecca bene, cagnolino! Uh, ma come sei bravo! Allora qualcosa sai fare! Ihihihi”

“Tieni, assaggia le mie!”, disse Roberta dai capelli rossi. Le scarpe di Roberta erano più sporche rispetto a quelle di Carolina. “Facci vedere la lingua!”, gli disse lei. Tirò fuori la lingua, tutta annerita e impolverata, che fece scoppiare grasse risate.

Piedi Paola

Quando si fece ora di cena, il ragazzo fu mandato a ritirare la pizza, che dovette pagare di tasca propria. Poi, al ritorno, dovette apparecchiare la tavola, mentre le sue padroncine stavano sul divano a guardare la TV. Non lo degnavano di considerazione, salvo chiedergli di tanto in tanto se avesse finito, che avevano fame. “Ma quanto cazzo ci metti? Ti muovi? Se non ti sbrighi ti facciamo vedere noi!” lo minacciavano, sghignazzando.

La cena si svolse sulla falsariga della precedente, senza niente di eccezionale. Il povero ragazzo, oltre a dover servire la cena, si dovette sorbire una buona dose di umiliazioni verbali, schiaffi, sputi e calci. Per farlo bere, le ragazze gli avevano riservato una bacinella piena di acqua, nella quale si erano divertite a sciacquare dei calzini ripescati dal cesto dei panni sporchi. Da mangiare, gli diedero dei pezzi di pizza che calpestarono accuratamente a turno: ovviamente dopo averli mangiati lo schiavetto dovette pulire il pavimento con la lingua. Appena finito di cenare, le tre ragazze decisero di guardarsi un DVD: si tolsero le scarpe, e si spaparazzarono sul divano. davanti al divano c’era un poggiapiedi, ma Domiziana ebbe la fantastica idea di usare il suo schiavo a tale scopo. Così vennef atto mettere a quatro zampe, e le tre vi appoggiarono i piedi. Passarono tre quarti d’ora, durante i quali, oltre allo sforzo titanico di mantenere quella scomoda posizione, lo schiavetto si beccò qualche pedata e insulti sulla sua scarsa virilità. Di tanto in tanto poi Carolina si divertiva a mettergli i piedi in faccia, ordinandogli di annusare: “Puzzano vero? Ahahaha”. Allora alle tre venne in mente un altro giochino: il ragazzo era stato bendato, quindi le ragazze gli facevano annusare i piedi a turno e lui, posizionato davanti al poggiapiedi, doveva indovinare di chi fossero. Domiziana indossava un paio di calzini rosa, mentre Roberta aveva dei gambaletti semistrasparenti. Carolina portava dei classici calzini bianchi, la cui suola era diventata nera a forza di camminare scalza per la casa durante la cena. Ogni volta che il ragazzo sbagliava, gli arrivava una serie di schiaffi dalla proprietaria del piede. Alla fine però gli odori dei diversi calzini gli si erano talmente impressi nel cervello che indovinava sempre a chi appartenessero. Come “premio” finale, Carolina se li tolse e glieli infilò in bocca. Quando gli fu tolta la benda, si trovò di fronte alla visione celestiale dei piedi nudi di Carolina: taglia 39, dita affusolate, di un candore fuori dal comune. L’odore vivo della pelle di quei piedi, assai più dolce di quello dei calzini, gli inebriò le narici, accendendogli dentro una forza vitale e una eccitazione che il duro lavoro di quella sera in parte aveva smorzato. Carolina se ne accorse, e si divertì ad avvicinarglieli alla faccia, sventolandoglieli a pochi centimetri dal naso. Avrebbe voluto leccarli, ma non gli fu permesso subito. “Ti piacerebbe leccarli, eh? Sono troppo puliti per quella fogna di bocca che ti ritrovi! Che dite voi? Lo accontentiamo?” – “Ma si, dai. Stasera è stato bravo!”, rispose Roberta. Domiziana rimase indifferente. Allora Carolina iniziò a passeggiare scalza per la casa, ordinando allo schiavo di seguirla a quattro zampe. Ogni tanto si fermava e si faceva baciare il piede: passò in bagno, nelle camere da letto, in cucina e infine ritornò in salotto. Si guardò un piede e disse: “Bene, adesso si! Vieni schiavetto!” Le piante dei piedi erano ora impolverate: “Lecca!”, disse Carolina. Lui obbedì, iniziando a leccare delicatamente la pianta del piede destro, dal tallone fino alle dita. Succhiò le dita uno ad uno, mentre la ragazza le muoveva ogni tanto. Passò all’altro piede, ripetendo il servizio. Le altre due ragazze alternavano espressioni di disgusto a sorrisini di derisione, ma in fondo quella situazione le intrigava. Leccò fino a quando le piante non tornarono abbastanza pulite. “Bravo piccino!”, disse, sfottendolo. Ma la serata non era ancora finita.

Domiziana – parte III

Piedi

Il suo entusiasmo durò poco, e il suo morale scese rapidamente sotto le scarpe: ma non potè fare a meno di obbedire alla richiesta della sua padrona. E passarono nonostante ciò diverse settimane prima che lei si rifacesse viva. Lo chiamò dicendogli che stava organizzando una cena a casa sua, con le sue amiche, e che lui le avrebbe dovute servire.

Il giorno decisivo, si ritrovò a casa della sua padrona assieme alle amiche di lei: Roberta, Carolina e Federica. Era stato preventivamente mandato a comprare la pizza, che naturalmente dovette pagare lui.

Appena arrivato, Domiziana lo aveva accolto schiaffeggiandolo sonoramente, per ricordargli chi comandava. Poi per umiliarlo le quattro gli avevano fatto indossare un grembiulino: la loro malsana idea di fargli indossare anche le scarpe coi tacchi per fortuna fallì, dato che non gli entravano. Nemmeno quelle di Carolina, che pure portava un 39 abbondante ed era la più alta delle quattro.

Per tutto il resto della serata, dovette adempiere al compito che la mente diabolica della sua padrona aveva concepito: fare da servo a quattro ragazzine in vena di divertirsi e di umiliarlo. Per questo era anche un pò timoroso, in quanto, pur essendo eccitato all’idea di essere un giocattolo nelle mani di una padrona, tuttavia nutriva dei dubbi sulle intenzioni di lei e sul fatto che questa non aveva un briciolo di premura nei suoi confronti, anche a causa della sua immaturità. Ma ormai era alla loro completa mercè.

All’inizio, servì le padrone beccandosi “soltanto” una buona dose di ceffoni e insulti, il tutto fra le risate generali. Ogni volta doveva stare in ginocchio a guardare le ragazze dal basso mentre mangiavano, fino a quando non gli ordinavano di portare altra roba. Con le ginocchia doloranti l’impresa diventava sempre più ardua. “Muoviti, imbecille!”, tuonava la voce di Domiziana: “Sei proprio un idiota!”, diceva, schiaffeggiandolo, mentre le altre tre se la ridevano. Una cosa che lo mandava letteralmente in estasi era quando la sua padrona lo afferrava per la maglietta, tirandolo a sè, e lo fissava negli occhi, con uno sguardo fermo, magnetico, penetrante: quegli occhioni da cerbiatta, che, nonostante lo sguardo irato, non riuscivano a nascondere una certa dolcezza. A rompere questa estasi paradisiaca, le voci squillanti delle altre, che iniziavano per dispetto a impartirgli ordini tutte e tre insieme, e lo schiaffeggiavano nel momento in cui non riusciva ad esaudirli. Per umiliarlo, ogni tanto gli tiravano addosso bevande, o lo colpivano con le bottiglie di plastica vuote. Se provava a difendersi dai colpi, infierivano ancora di più. Non serviva a niente implorare pietà. La più tranquilla della comitiva sembrava essere Roberta: molto composta e contenuta, anche se aveva quell’aria da furbetta che bastava a umiliare. Fu proprio Roberta a proporre di truccare il povero ragazzo, che venne portato in bagno, a metà della cena, e conciato per bene: “Guarda che faccia da pompinara che hai! Tanto abbiamo capito che sei frocio.”. Ovviamente il tutto veniva fotografato coi telefonini. Continuò ad essere degradato, fra risatine varie e sputi in faccia, per il resto della serata. Man mano che le ragazze bevevano, il loro ritegno andava scemando: avevano iniziato a spalmare del cibo sulla faccia dello sventurato, al quale venne anche ordinato di mangiare dal pavimento, dopo che le perfide padrone lo avevano calpestato. Federica si divertiva a farglielo leccare direttamente dalla suola delle sue scarpe.

Roberta aveva un bel paio di stivali rosa, e più volte aveva minacciato di farli “assaggiare” allo schiavo, puntandoli sui suoi testicoli. Carolina nel frattempo aveva preso a schiaffeggiarlo selvaggiamente, ridendo come una forsennata; Federica, dal canto suo, volle movimentare un pò la serata proponendo alle compagne, a giro, di prenderlo a calci sui testicoli. Di fronte a questa proposta, il ragazzo iniziò a tremare e a implorare, ma Carolina, accarezzandolo in testa, abbozzò una falsa dolcezza che aveva il sapore più autentico della presa per il culo: “Tranquillo, lo sai che le tue padrone ti vogliono bene, vero ragazze?” – “Oh, ma si! Ahahahah!”. “Forza, alzai e allarga le gambe”, disse Domiziana. “Vi prego, questo no! Vi supplico …” disse lui, con la voce che quasi tremava.

Piedi Silvia

Carolina gli si mise dietro, tenendogli le mani ferme, mentre Federica, la promotrice dell’iniziativa, tirò un calcio fra le gambe del ragazzo, che cacciò un urlo e si accasciò a terra. Mentre era rannicchiato, Domiziana gli ordinò perentoriamente di rialzarsi, ma dato che stentava, iniziò a prenderlo a calci sulla schiena. “Alzati, ho detto, o sarà peggio per te!”: disse, tirandogli i capelli. Quando si rialzò, Carolina lo “aiutò” a rimettersi in posizione, puntandogli un ginocchio sulla schiena e tirandogli le braccia in dietro. Roberta, per sua fortuna, ci andò leggera, con la sua solita delicatezza, quasi solo appoggiando il dorso dello stivale sulle palle dello schiavo, che comunque sobbalzò dallo spavento. “Roby, ma che fai, dagli giù più forte, dai! Ti fà per caso pena questo deficiente?”, la spronò Domiziana. Così Roberta lo colpì più forte, tanto che questo si dimenò al punto da liberarsi dalla presa di Carolina, gettandosi di nuovo a terra, piagniucolante. Venne rimesso in piedi, e Domiziana gli diede una ginocchiata che non gli lasciò scampo. Dolorante, piagniucolante e implorante, sul pavimento, iniziò a fare tenerezza alle quattro, tanto che Carolina, alla quale sarebbe spettato il turno, mettendogli la scarpa sulla guancia disse che poteva bastare. “Dai, sennò lo ammazziamo!”, poi, rivolta al ragazzo, “vedi che ti vogliamo bene? Dovresti ringraziarmi! Baciami il piede!”, Il ragazzo baciò più volte la scarpa a Carolina, e con voce tremolante la ringraziò: “Grazie padrona, grazie!”. La stessa cosa fece con le altre, che gli porsero i piedi una dopo l’altra.

Per completare l’opera, venne schiaffeggiato ancora un pò: ogni volta che una delle ragazze anche solo alzava una mano, per istinto lui si riparava la faccia, tremando: a tal punto lo avevano conciato.

Poi gli fu permesso di andare in bagno a riprendere fiato. A questo punto, il gioco poteva dirsi concluso, e ci fu tempo per un pò di social time, durante il quale le tre ragazze, eccetto Domiziana, gli dissero che era stato bravo e lo ricompensarono baciandolo sulle guance. La sua padrona invece era fredda e distaccata come al suo solito. Chissà la prossima volta cosa gli sarebbe toccato fare.

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