Divina Giulia e Padrona Jasmine

Divina Giulia 3Cammino a fianco delle mura aureliane, un caldo pomeriggio di estate. Non si incrocia un’anima. La Divina mi attende. Forse sono in ritardo, e non so dove devo andare. Mi fermo sotto la pensilina del bar, nell’attesa che la Divina mi dia l’OK per raggiungere la location. Ho la gola secca a causa dell’arsura, quindi penso di andarmi a prendere qualcosa al bar alle mie spalle. Il mio pensiero viene interrotto dalla chiamata della padrona: al telefono, mi rimprovera per il ritardo. Ho perso la cognizione del tempo, non so di quanto ho fatto tardi. Dice che si deve cambiare: “I piedi ti piacciono odorosi? Allora non me li lavo!”. La sua voce è calda e accattivante.
La serranda del doungeon è socchiusa, mi devo accucciare per entrare. Non appena alzo gli occhi, mi trovo di fronte due autentiche Dee, che hanno gli occhi vitrei puntati su di me. Mi porgono le mani e le bacio umilmente. Sono teso, e la Dea Giulia mi fa notare che ho lasciato aperta la chiamata al telefono. Mi fanno spogliare: rimango in mutande, in ginocchio, con le rose in mano. Divina Giulia me le prende dalle mani, poi arriva Jasmine che, rapida, mi mette il collare, al quale viene agganciato un guinzaglio. Il mio sguardo non può che andare ai bellissimi piedi di Jasmine, il cui odore mi inebria le narici.
Quasi intuendo le mie necessità, la Divina mi fa abbeverare in una ciotola. Bevo l’acqua con la lingua, da bravo cane, mentre la padrona continua a riempire.
Le Dee si divertono poi a lanciare una pallina, che devo rincorrere a quattro zampe, prendere con la bocca e riportare. Nel fare ciò, il guinzaglio si impiglia nello specchio, che per poco non mi cade addosso; vengo salvato dalla magnanimità di Padrona Jasmine.
Come seconda prova, vengo fatto sdraiare sul pavimento, e mi ritrovo con i piedi di entrambe in faccia. L’odore è sublime: più pungente quello di Jasmine, più greve quello della Divina.
I piedi di Jasmine scorrono nudi sulla mia lingua, facendomi degustare il salato del suo sudore. Giulia indossa invece un paio di calze, che sfregano morbidamente sulle mie guance. Vedo gli sguardi imperiosi delle Padrone puntati su di me. “Vedi di leccare bene! Guarda che abbiamo la frusta!”, minaccia Jasmine.
La divina mi ordina di masturbarmi. Il mio inutile verme stenta ad assumere consistenza, nonostante la Divina sia in attesa con un righello in mano: vuole mettermi di fronte alla limitatezza della mia virilità. Le Divine iniziano a conversare disinvoltamente fra loro, nella vana speranza che il mio membro inutile possa prendere vigore.

Divina Giulia
Poi la Divina mi fa adorare le sue scarpe rosse col tacco, che lecco avidamente. “Prendimi l’accendino a destra!”, mi ordina. Naturalmente lo cerco alla mia sinistra. “DESTRA!”: la padrona mi sta facendo proprio perdere la testa. Finalmente lo trovo, e accendo la sigaretta della padrona.
Di fronte alla criticità della situazione, Divina Giulia cerca di ricorrere agli estremi rimedi. Mi fa sedere sul piatto della doccia, e inonda il mio volatile barzotto con un getto caldo del suo nettare divino. La visione paradisiaca della patata della Dea, unita al tepore del suo nettare caldo che scorre su di me, fanno aumentare la rigidità del pene. Ma non è abbatanza.
Mi lasciano lavare, ma nella fretta e per il black-out emotivo che la divina mi ha indotto dimentico di chiudere lo sportello. La Padrona me lo rimprovera.
Abbassano anche le luci, credendo che quel briciolo di virilità che alberga in me si possa risvegliare. Tutto è vano: sto deludendo le mie Padrone, che se la ridono. “E’ così che servi la tua Dea? Ma che delusione che sei!”, dice Giulia.

Divina Giulia 5Si mettono ai miei fianchi, mentre io in ginocchio continuo a masturbarmi: sembra che il mio membro non ne voglia sapere, come se la loro Divinitàlo avesse paralizzato. La Dea mi mette il suo sedere in faccia, ordinandomi di annusare: la fragranza dell’ano divino finalmente sortisce i suoi, seppur lievi, effetti.
“Se non ti si addrizza nemmeno così significa che sei frocio, e ti inculiamo!”, minaccia Giulia, mentre adesso è Jasmine che mi fa adorare il suo culetto. Poggia il suo piede nudo sul mio inguine, ed esplodo in un’eiaculazione in onore delle mie Dee.

“Finalmente!” – esclama Giulia – “hai visto, le minacce servono a qualcosa allora! Jasmine, ci serviva il tuo culo per farlo venire!”.
Concludo l’opera ripulendo, su ordine di Giulia, il prodotto della mia concupiscenza. “Ma guarda che dolce cagnolino”, mi saluta Jasmine. Ci salutiamo, con la speranza di rivederci presto.

Domiziana – parte V

piedi KarinaLa serata precedente si era tenuta la festa delle scuole, durante la quale Domiziana aveva conosciuto un ragazzo. Aveva ballato con lui per tutta la sera, poi si era appartata fuori, in intimità. Di quel momento di intimità, Domiziana aveva mantenuto un piccolo regalino da portare al suo schiavo, alla cena di Carolina dell’indomani.

Domiziana si alzò dal divano, e si diresse decisa verso il ragazzo, che aveva appena finito di nettare i piedi di Carolina. Gli sputò in faccia, allentandogli anche un ceffone.

“Fai schifo, leccapiedi di merda!”, e giù un altro schiaffone. “Ammazza che uomo!”, aggiunse, provocando l’ilarità delle altre. “Tu non sai nemmeno che significa essere un maschio, frocetto! Vero?” – “Si, padrona!”

“Carolina, per lo meno i piedi te li ha leccati bene?”

Carolina si afferrò la caviglia, guardando la pianta del piede: “Diciamo di si, dai! Almeno questo lo sa fare!”, disse, ridendo forsennatamente.

“Perché non ci fai vedere quell’affare inutile che hai fra le gambe?” disse lei. “Voi lo volete vedere?” chiese alle altre. Roberta: “Mah! Io non ci tengo proprio! Che poi siamo sicuri che ce lo abbia?”, disse.

Lui iniziò a provare paura: era già in mutande ed esposto allo scherno di tutte e tre le sue aguzzine. Ora avrebbe dovuto mostrare loro i genitali, non sapendo se oltre agli insulti avrebbe ricevuto anche calci sui testicoli.

“No, per favore. Pietà!”, provò a piagnucolare. Ma non vollero sentire ragioni, e dovette rimanere in ginocchio, nudo come un verme, dinnanzi agli sguardi deridenti e agli insulti di loro.

“Dove vorresti andare con quel coso?”, disse Roberta. “Non sarà nemmeno un decimo di quello di Simone”, aggiunse Domiziana. “Vediamo se lo sai usare almeno!”.

Venne posto di fronte a uno sgabello, in ginocchio, e gli ci venne fatto appoggiare il pene. Roberta glie lo schiacciò con la scarpa, provocando un urlo di dolore, prontamente soffocato da un ceffone. Carolina gli si mise dietro, per tenerlo fermo in caso si fosse dimenato per il dolore. Roberta continuò a schiacciare il membro dello schiavo, che divenne ben presto violaceo. “Mi vorresti scopare, non è così?” gli chiese Domiziana – “Rispondi!” – “Non ne sono degno padrona!”. La risposta non le piacque e lo colpì con un violento ceffone: “Non dire cazzate! Mi scoperesti, eh?”, urlò. “Si, padrona!”, dovette rispondere il ragazzo.

“Lo sapevo, porco schifoso che non sei altro. E secondo te io mi farei scopare da un essere lurido come te? Per di più con quel coso ridicolo che ti ritrovi fra le gambe? Guardalo!”, indicando il pene martoriato.

“Se stanno così le cose” – disse lei – ” scopati la scarpa di Roberta come scoperesti me. Avanti, fammi vedere!”.

Lui, rimasto attonito e ancora indolenzito, ebbe una smorfia di sofferenza. Cercò di far erigere il suo pene, schiacciato sotto la suola della scarpa di Roberta, e iniziò a sfregare tanto quanto gli era consentito dalle sue forze residue.

Il gesto meccanico gli costò non poca fatica, ma il suo pene stentò ad assumere durezza. Rimaneva morbido e floscio, e per di più la ragazza si divertiva talvolta a schiacciare più forte. Mentre il ragazzo eseguiva i movimenti, Domiziana e Roberta lo insultavano e lo riempivano di sputi, e Carolina iniziò a dargli dei morsi sulle spalle.

Ben presto gli venne l’affanno, e sentì una vampata di calore pervaderlo. In un ultimo, disperato sforzo, chiese il permesso di venire. Gli venne concesso, almeno quello, e un getto non troppo potente si riversò sullo sgabello e sulla suola della scarpa di Roberta.

“Che schifo!”, fu il commento di quest’ultima. Carolina invece lo fece alzare e gli diede una ginocchiata sui testicoli da dietro, facendolo piegare. “Guarda che casino che hai fatto, hai sporcato tutto lo sgabello. Adesso lo pulisci con la lingua!”

Piedi Arianna“Prima la scarpa” precisò Roberta; al che lo schiavo leccò il suo proprio sperma dalla suola, con colpi di lingua ampi e lenti. Ben presto la sua bocca si impastò di un sapore piccante, acre e disgustoso. Iniziò ad avere anche dei conati di vomito, repressi da un violento ceffone di Carolina. “Buono, vero? Questa è la tua cena! Ahahaha”.

“Inghiottilo!”, fu il perentorio ordine di Domi. Così fece, suo malgrado, e la smorfia di disgusto che ne seguì fece ridere tutte e tre le ragazze.

“Allora avevamo ragione, sul fatto che sei frocio!” disse Domiziana. “Proprio per questo motivo ieri sera ho pensato di portarti un regalo. Sai, mi sono divertita tanto con Simone.”

Che cosa aveva in serbo per lui? Cosa altro ancora avrebbe dovuto fare per compiacerla? Questi pensieri gli ronzavano in testa mentre lei era andata nell’altra stanza a prendere “il regalo”. Lo scoprì quando lei tornò, con sorrisino beffardo, tenendo in mano un barattolo chiuso. Dentro, un preservativo da cui fuoriusciva un filo di sperma giallastro.

“No, vi prego, questo no!” disse, spaventato quanto disgustato. Già ingerire il suo sperma era stato disgustoso: quel sapore pastoso e piccante gli riempiva ancora la bocca. L’idea di ingerire lo sperma di un altro, per di più del giorno prima, era ancora più vomitevole. Eppure era sottostato a tutte le umiliazioni e le vessazioni che gli erano state imposte, e non si sarebbe sottratto nemmeno stavolta.

“Noooo, dai! Ahahahah”, risero le altre due. Quando Domiziana svitò il coperchio del barattolo, uscì un odore nauseabondo di sperma stantio, tanto che la stessa si sventolò una mano davanti al naso, in un’espressione di disgusto.

“Senti che puzza, annusa! Forza!” disse, mettendogli il barattolo sotto al naso, e roteandolo per fargli vedere meglio il contenuto. “Dillo che era meglio la puzza dei miei calzini, eh?” lo sfottè Carolina.

Il ragazzo tossì e cercò di girarsi dall’altra parte, ma si beccò uno schiaffo da Domiziana, che lo afferrò per il mento e costrinse il suo sguardo verso il barattolo.

Fulminandolo con lo sguardo, gli ordinò, scandendo bene la parola: “L e c c a!”

A quel punto, Carolina lo afferrò per i capelli, reclinandogli il capo all’indietro. “Apri la bocca! Di più!” Mentre lui aveva la bocca spalancata, Domiziana ci fece percolare lo sperma, mentre le altre due guardavano incuriosite la scena.

Gli venne appoggiato il preservativo vuoto sotto al naso.

“Inghiotti!” disse Domiziana, chiudendogli la bocca con uno schiaffo sotto al mento. A fatica mandò giù tutto: il liquido era denso, freddo e dal sapore salato e amaro, molto più cattivo di quello ingerito in precedenza. Fu quasi per vomitare. “Ti piace la sborra, frocetto!” Iniziarono a canzonarlo, mentre lui era in ginocchio, nudo come un verme, con lo sguardo fisso al pavimento e il viso sporco dello sperma di un altro, ardente per la cocente umiliazione a cui era stato sottoposto.

“Mi sa tanto che ti dobbiamo trovare un ragazzo, frocio come te! Ihihihi”.

“Muoviti, vatti a lavare!”: a quest’ordine si alzò, credendo (e sperando) che la serata fosse finita. “Anzi, fermo!”, gli intimò Domiziana. “Vuoi sciacquarti la bocca? Anche se meriteresti di tenerti il sapore della borra di Simone fino a quando non torni a casa, tanto per ricordarti quanto sei sfigato.”

“Si padrona, vorrei sciacquarla se possibile.” rispose lui.

“Bene, Carolina è andata a pisciare, tra poco ti porta il colluttorio! “. Era ancora caduto nella diabolica trappola delle sue aguzzine. Poco dopo Carolina tornò con un bicchiere di plastica trasparente, contenete urina giallo scuro.

“Guarda che colore, sembra birra!” – “Che schifo! Daiiiii!” furono i commenti divertiti delle tre. “Sbrigati, bevila!”

“Padrona no, ti prego! Mi fa schifo!”

“Ti fa schifo? Ma come ti permetti? Hai bevuto la sborra di Simone, mi hai leccato i piedi sporchi e adesso il mio piscio ti fa schifo?” disse Carolina, scattando d’ira e ammollandogli uno schiaffone. “Domi, lo posso ammazzare di botte questo imbecille?” continuò, “Dai! Ahahaha”, rispose Domiziana.

Lo afferrò per i capelli e iniziò ad assestargli una serie di schiaffi sulla guancia destra: “De-fi-cie-nte!”, scandì, intervallando ogni sillaba con un ceffone. “BEVI!”, incalzò!

Riluttante e schifato, prese il bicchiere, e iniziò a bere a sorsi. Roberta, delicatina, non ce la fece ad assistere alla scena e si voltò a guardare la TV. Domiziana, con le braccia conserte, dominava dall’alto la scena, mentre Carolina, come di consueto, si assicurava che il ragazzo svolgesse il compito ordinatogli, pronta a intervenire qualora necessario.

Il sapore amarognolo dell’urina fece venire nuovamente i conati di vomito al ragazzo, ma rispetto a quello nauseabondo dello sperma assaporato poco prima gli sembrò quasi gradevole . Sorso dopo sorso, bevette tutto, sotto lo sguardo penetrante e umiliante delle due ragazze. All’epoca non esistevano i cellulari con le fotocamere, altrimenti sarebbe senza dubbio stato immortalato mentre si prestava alle umiliazioni impostegli. Ormai avrebbe fatto di tutto per la sua padrona, e, di riflesso, per le sue sadiche amiche: il suo orgoglio maschile era stato praticamente annientato durante il suo percorso di schiavitù.

Era ancora caduto nella diabolica trappola delle sue aguzzine. Poco dopo Carolina tornò con un bicchiere di plastica trasparente, contenete urina giallo scuro.

Giochi da adolescenti – parte II

feet05Ben presto i ruoli si invertirono: ora Alessandra era la moglie di Valeria, pertanto poteva godere di speciali privilegi, fra i quali un uso personale del loro schiavetto. Vinta la timidezza, si era calata appieno nel ruolo.

Dire che si vendicò e si rivalse di tutto quello che le era stato fatto sarebbe poco: restituì a Daniele tutta la furia con la quale le si era avventato con gli interessi. Oltre a divertirsi ad impartirgli compiti inutili (e spesso a fare qualcosa per poi disfarla lei stessa), si divertì a tormentarlo di continuo e senza riguardo alcuno. Schiaffi e calci continui, insulti, sputi in faccia erano di routine. Spettava lui il compito di prendersi cura dei piedi di Alessandra, pulirli, massaggiarli, leccarli e spalmarli di crema: passava ore inginocchiato in fondo al letto a leccare quei gioielli, dalle dita lunghe e sottili e dalla fragranza tutta particolare. Ogni sera lo legava all’armadio e lo frustava, rendendogli il doppio delle sferzate che lei stessa aveva ricevuto. Tutto ciò le dava una soddisfazione ed una sicurezza di sé che mai aveva provato.

Ovviamente tutto questo strazio e queste angherie il ragazzo le poteva sopportare soltanto grazie all’amore e alla venerazione che provava per lei, che era molto diversa dalla sottomissione esclusivamente sessuale con la quale si offriva a Valeria. Ciò che più lo gratificava era vedere il sorrisino di soddisfazione e di goduria accennarsi sul volto della sua dea, sentire quella risatina acuta che faceva da cornice ad ogni suo ordine.

Non vedeva l’ora che arrivasse la sera: a quel punto era infatti forzato ad assistere alle effusioni amorose che le due si scambiavano sensualmente sul divano (Alessandra vi si sottoponeva malvolentieri, ma era il prezzo da pagare per i privilegi che le erano concessi). Mentre si baciavano, si carezzavano, si scaldavano e leccavano a vicenda il povero Daniele era costretto a guardarle in ginocchio, nudo, col divieto assoluto di toccarsi. Pian piano arrivarono anche ad avere un rapporto sessuale: Alessandra venne penetrata da Valeria con un grosso dildo rosso, mentre ansimava e mugolava, contorcendosi dal piacere fino ad allora mai provato: alla fine Daniele procedette, oltre che a ripulire il sesso delle sue padrone, anche a succhiare il dildo usato. Attimi di terrore quando Valeria ebbe l’idea, per fortuna non portata a termine, di penetrare anche il ragazzo analmente.

Quel lusso e quell’atmosfera di gaudio terminarono, non diversamente da come erano iniziati, ad uno schioccare di dita di Valeria. Ora erano tutti e due suoi schiavetti.

“Stasera viene una nostra amica. Scoprirete dopo chi è! Ihihihihih. Mi raccomando, non fatemi fare brutte figure!”

I due, terrorizzati, scoprirono che si trattava di Letizia: carina di volto, castana, un po’ larga di fianchi ma attraente nel complesso. Rimase sorpresa nel vedersi due dei suoi compagni di scuola inginocchiati ai suoi piedi. Valeria le disse: “Guardali, te lo saresti mai immaginato? Sono i miei schiavetti ora, pronti a fare quello che voglio. Ora sono anche i tuoi, puoi divertirti quanto vuoi con loro ihihihi”

Vinto lo stupore e anche un certo imbarazzo iniziale, Letizia disse: “quella stupida cagnetta tanto non serve a molto, è una sfigata, non se la incula nessuno e va anche male a scuola. Quell’altro poi, fa tanto il superiore, e poi eccotelo qui” – disse, dandogli un calcio deciso su un fianco, facendolo piegare. Scoppiarono a ridere. Forse Letizia si ricordava che, non molti anni prima, Daniele aveva provato a sedurla, senza successo, risultando goffo, impacciato e alla fine anche fastidioso al punto da farsi detestare.

“Avanti, baciami le scarpe, frocio!”. Riluttante, il ragazzo si avvicinò, sotto il costante sguardo severo di entrambe le ragazze, alle scarpe di Letizia, sporche e impolverate, e le baciò, mentre la ragazza sollevava ed abbassava la punta del piede in segno di superiorità e impazienza. Fatta questa operazione, lo colpì in pieno volto con un calcio. “Se lo merita, non è buono nemmeno a baciarmi i piedi!”, e le due risero di pancia.

Letizia si tolse le scarpe da ginnastica bianche: i suoi piedi puzzavano, anche a causa della corsa che aveva fatto per non perdere l’autobus. Alessandra, mugolante, era appesa alle maniglie della porta, accanto all’albero di natale. Le lucine rosse e verdi si riflettevano su quel corpo biancastro, scosso da brividi, facendo rilucere l’arcata della schiena.

“Te li saresti immaginati questi due così!” disse Valeria, con un sorriso di soddisfazione.

“Ma pensa! Io che quando li vedo la mattina a scuola, no, non ci posso ancora credere!” rispose Letizia.

“Non hai ancora visto niente! Adesso vedrai!”

Piedi Alessandra 2Letizia diede un’occhiataccia a Daniele, il quale, inginocchiato alla destra del divano, a testa bassa stava baciando e leccando le scarpe di Letizia, rosso di vergogna. Si sentiva infiammare dalle ondate di eccitazione e di umiliazione, che sembravano fare eco alle vampate di odore che provenivano da quelle scarpe. “Schifoso che non sei altro, mi fai vomitare…”

Per ordine di Valeria, il ragazzo si stese ai loro piedi; si sentì schiacciare la testa dai caldi calzini di spugna di Letizia, che iniziarono ad essere strofinati, costringendolo ad assecondarli con il movimento della testa; intanto Valeria premeva con gli stivali sulle cosce, ridacchiando.

Le due avevano iniziato a lanciare piccoli oggetti contro Alessandra, la quale ogni volta soprassaliva, vuoi per il dolore, vuoi per lo spavento: a denti stretti, sperava che sarebbe finita presto.

Le due si erano stufate, ed ora Alessandra, rivestitasi, era in ginocchio accanto a Letizia con un vassoio. Daniele, nudo come un verme, era di fronte alle ragazze, eccitato.

“Cioè, roba da non credere. Ma ti rendi conto che questo si arrapa con la puzza dei miei piedi?”

“I maschi fanno veramente schifo a volte…ihihihihihihi”

Letizia allora si fece togliere i calzini con la bocca, li arrotolò e li infilò in bocca ad Alessandra, dandole un colpetto sulla guancia.

“Leccameli, avanti, pulisci bene!”

Daniele iniziò a nettare i piedi di Letizia con la lingua, dai talloni, su per le piante, fino alle dita: la sua bocca si riempì rapidamente di un sapore salino e acidognolo. Poi iniziò un lavoro certosino di pulizia fra le dita, succhiandole una ad una, ed ingoiando i pelucchi che i calzini avevano lasciato. Il tutto fra le risatine e lo scherno delle ragazze. Ora la sua reputazione era compromessa definitivamente: Letizia, che lo aveva fotografato col cellulare, lo avrebbe sputtanato per tutto il paese senza pietà.

L’attenzione di Valeria tornò a concentrarsi su Alessandra, in evidente stato di sofferenza a causa del freddo. La vedeva scossa da brividi, con la pelle d’oca e con difficoltà a respirare, a causa del calzino. Si avvicinò, la carezzò, e le sfilò il calzino di bocca, e, tenendolo con la punta delle unghie, lo lanciò addosso a Daniele. Continuò ad accarezzare il corpo della ragazza, dandole dei colpetti sulle natiche e dei pizzicotti sui capezzoli, con fare beffardo. “Valeria, posso andare al bagno”, disse, mugolante e con le lacrime agli occhi: era più di re quarti d’ora che era legata, e per di più aveva bevuto molto. “Piccina mia, ma non c’è bisogno di andare il bagno, sarà il bagno a venire da te!” disse Valeria, guardando Letizia e ridendo con essa. Le due fissarono severe Daniele, poi Letizia lo spronò con un calcio. “Tesoro, sai quello che devi fare, vero? O vuoi che la tua Alessandra la trattenga ancora per molto?”, disse Valeria. Era troppo, non aveva mai costretto il ragazzo ad un gesto così umiliante: la guardò prima con aria supplichevole, provando poi a protestare “Padrona, ti prego, questo no! Ti scongiuro, non mi puoi chiedere di fare questo!”. Valeria si avvicinò, gli mise la mano sul mento e si pose faccia a faccia con lui: “C’è sempre una prima volta, caro! A cosa vuoi che serva la tua bocca, altrimenti? Ti ho solo chiesto di diventare il cesso del tuo amore Alessandra! Non mi dire che le vuoi negare questo servizio! Questo sì che è un gesto d’amore!”.

Risero entrambe, e Letizia gli assestò un calcio nel sedere, per farlo avvicinare ad Alessandra. Daniele le guardò con la rabbia negli occhi, ma l’eccitazione era più forte dell’umiliazione, più forte del disgusto che provava all’idea di bere dell’urina. Si andò a sistemare, in ginocchio, sotto il sesso della schiavetta, osservando la delicata peluria castana: spalancò la bocca, ed attese. L’orina non arrivava.

Alessandra, vuoi per il freddo, vuoi per il disagio, vuoi per l’imbarazzo, non riusciva a liberarsi di quel peso che gravava sulla sua vescica: guardava il soffitto, tremolante e con le lacrime agli occhi. Le si avvicinarono le altre due ragazze. Valeria la carezzò sulla schiena in maniera sensuale (di una sensualità che però sottendeva beffa e sarcasmo), percorrendo tutto il suo corpo, le natiche, le cosce, la pancia, strusciandosi anche addosso, per poi sussurrarle all’orecchio: “Tesoro, rilassati, coraggio”, stampandole un bacio sul collo, “devi solo rilassarti, non pensare a niente, dai, dai….”. Letizia, dal canto suo, si limitava ad osservarla, con uno sguardo fermo e deridente. Dopo un po’, Alessandra iniziò ad orinare, dapprima a getti intermittenti (che andarono a bagnare il busto e il viso di Daniele), poi con un flusso prolungato e continuo di nettare bianco-giallastro, che andò a riempire la bocca del ragazzo.

Daniele sentì una vampata di calore in bocca e sul viso, accompagnata dal sapore acre del liquido che andava a riempirgli la bocca. Si sforzò di deglutire (fu difficilissimo), per evitare che il liquido tracimasse. Bevve tutto, con una fatica non indifferente. Alla fine, rimase trafelato. Le due nel frattempo erano in preda a fragorose risate, miste a insulti che non si riuscivano a comprendere. “E bravi i miei due cucciolotti!” disse Valeria. Poi fu il turno di Letizia, che, con un calcio dato con il dorso del suo piede (portava un 39), richiamò l’attenzione dello schiavo. “Non vedi che si è sporcata tutta, qui, è schizzata anche sul pavimento!Finisci di pulirla!”. Di fronte allo stordimento e all’esitazione di questo, gli diede un calcio sui testicoli, che lo fece piegare e urlare di dolore, un urlo soffocato dalla difficoltà di respirare! “MUOVITI!”. Spaventato dall’imminente arrivo di un altro colpo, si sforzò all’inverosimile per iniziare a leccare le goccioline cadute sul pavimento. Leccava forsennatamente le mattonelle fredde, raccogliendo qua e là le gocce di liquido, mentre diventava sempre più rosso per la pesante umiliazione che stava subendo (per di più da parte di una ragazza che aveva corteggiato e dalla quale era stato rifiutato e detestato). Sentì il suono impietoso dello scatto del cellulare, seguito dalle risate delle due ragazze: lo stava nuovamente fotografando, e più di una volta. Venne schiacciato prima dal piede di Letizia, che premeva a scatti e con forza, poi anche da quello di Valeria, più delicata. Quando la pressione cessò, il ragazzo alzò la testa verso la fica di Alessandra. La vide gocciolare, poi vide alcuni rivoli che le scendevano lungo le cosce e i polpacci, fino ai piedi: a quella vista, l’eccitazione, che era scomparsa per il calcio di letizia, recuperò vigore. Iniziò a leccarle prima i piedi: quella delizia, che più e più volte aveva avuto modo di assaporare, ora, insaporita dall’orina, acquistava un qualcosa di particolare, che portava la sua eccitazione ai massimi livelli. Leccava con ardore, prima il dorso del piede, poi fra le dita, i talloni, e tutto intorno. Poi salì verso i polpacci,dietro le ginocchia, fino ad arrivare alla vagina. Quella vista fu sufficiente a fargli dimenticare tutti i dolori: iniziò a leccarla, partendo dalle grandi labbra, scivolando sulla peluria. Prima con delle pennellate lunghe e incisive, poi sempre più localizzate e frequenti, penetrando all’interno. Mentre leccava, le due lo incitavano con dei calcetti, lo afferravano per i capelli, per guidarlo dove volevano loro. “Guarda come lecca, gli ho insegnato bene eh? Ihihihihihih”. “Che schifo, mi fa vomitare questo coglione…”, rispondeva Letizia, “Pensa se tutte le poveracce alle quali hai rotto le palle sapessero che bevi il piscio!”. “Guarda che bel bidet portatile che abbiamo, ahahahahah!”.

Intanto Alessandra si stava rilassando, riscaldata dalla lingua del suo compagno, e da quella sensazione di calore che la avvolgeva. Iniziò ad eccitarsi, e a gemere in maniera sommessa: “mmmm” “ahahahah”. Quando capirono che si stava eccitando sempre di più, Valeria era propensa a ricompensare la sua schiava facendola venire, ma il sadismo di Letizia fu tale da negarle tale premio: preso per i capelli, Daniele fu interrotto, allontanato e schiaffeggiato (solo per sfregio). Intanto Valeria stava graffiando la schiena di Alessandra, che si inarcava spasmodicamente e freneticamente ad ogni strisciata, accompagnata da un urlo frignante. “Brava Valè, fagliela pagare a quella troia in calore, di avere goduto mentre le ripulivano la figa!”, disse Letizia.

“Ti ha detto male bello, scappa anche a me da pisciare!” disse Letizia. “Muoviti sfigato, andiamo!”: quando furono al bagno, chiuse a chiave, fece stendere il ragazzo nella vasca, vi si posizionò con le gambe divaricate sui bordi, ed iniziò ad urinare sopra il corpo nudo e affaticato di Daniele. Rispetto all’orina di Alessandra, quella di Letizia era più scura, ed aveva un odore più intenso e sgradevole. Il getto caldo ricoprì tutto, ed andò a bruciare sui graffi che segnavano il suo corpo. L’umiliazione fù cocente. Alla fine, Letizia si pulì con la carta igienica, che infilò violentemente in bocca al ragazzo. Poi se ne andò, con fare freddo e apatico, lasciandolo steso nella vasca: Daniele la vide chiudere la porta, e rimase con quel sapore sgradevole in bocca, con la fastidiosa sensazione di umidiccio su tutto il corpo e immerso in quell’odore nauseabondo. Sputò via la carta igienica, e rimase a fissare il soffitto per circa un quarto d’ora, meditando sul degrado e su come la sua dignità era stata calpestata: eppure, non sarebbe voluto stare da nessun’altra parte, era questa la vita che voleva (almeno con le ragazze), che lo appagava e che portava la sua eccitazione sulle vette più alte. Era totalmente schiavo e succube delle sue compagne, e ormai dipendeva completamente dal loro sadismo e dai loro capricci.

Sulla via della schiavitù

Sara era una padrona sui 35 anni, corpo statuario, mora, occhi azzurri e dei piedi praticamente perfetti. Sapeva essere tanto dolce quanto spietata, e sapeva piegare gli  uomini al suo volere usando la sua bellezza e anche la sua astuzia.

Michele era un ragazzo di 20 anni che viveva con lei, e che da circa 3 anni era divenuto succube del suo volere, fino a diventare il suo schiavo. La sua padrona non gli aveva mai negato di continuare gli studi, ma tutto il resto della giornata lo avrebbe dovuto dedicare a svolgere i compiti domestici, a fare le spese e a soddisfare i capricci e i desideri della sua dea.

Quando la sua padrona tornava dal lavoro, controllava se le pulizie erano state svolte a dovere, e al minimo difetto (che necessariamente era presente) schiaffeggiava fermamente e impassibilmente il suo cucciolo. A tavola, se il pranzo che le aveva preparato non era di suo gradimento, puniva lo schiavo con ceffoni e calci, il tutto condito con insulti; ogni volta si divertiva a ribadire quale fosse la posizione del suo schiavo, e che ormai non aveva alcuna speranza di tornare alla sua condizione originaria, a tal punto di degrado ed umiliazione era giunto. Ogni volta, in segno di sottomissione, lo schiavo leccava e baciava la mano che lo aveva colpito, scivolando delicatamente con la lingua attorno al grosso anello che la padrona indossava, e che gli procurava ancora più bruciore.

“Sei un idiota, un coglione, un fallito. Sei un buono a nulla”: nella sua voce non c’era mai rabbia, ma fermezza e spesso derisione; sovente scoppiava in risatine, che aumentavano ancora di più il senso di umiliazione e la frustrazione del ragazzo.

Ogni volta che la padrona tornava dai turni di lavoro, il ragazzo la accoglieva prostrato sul pavimento, baciandole i piedi dieci volte ciascuno. D’inverno era il turno degli stivali, che la padrona possedeva in abbondanza e di ogni tipo: spesso, quando pioveva, erano sporchi e umidi, mentre, nei giorni di sole, erano impolverati, ma qualunque fosse il loro stato la padrona non faceva sconti al ragazzo. L’unica eccezione era stata un giorno in cui Sara aveva calpestato degli escrementi di cane: in quel caso lo aveva costretto ad avvicinarsi con la lingua, senza toccarla, anche se poteva sentirne l’odore col costante terrore di sfiorarla. D’estate, invece, lo schiavo aveva il privilegio di poter baciare e leccare l’innumerevole varietà di sandali indossata dalla padrona, e di poter baciare le sue unghie curate e smaltate.

Dopo le feste di benvenuto la padrona era solita sdraiarsi sul divano, facendosi leccare i piedi provati dalle fatiche del turno lavorativo. Spesso i piedi erano sudati e puzzolenti, ma lo schiavo era stato addestrato a leccarli fino a ripulirli del tutto e far quasi scomparire l’odore; la padrona sapeva che questa pratica era estremamente umiliante e degradante per il ragazzo, per questo era solita deriderlo e beffeggiarlo durante questo servizio: “ma guarda che uomo che sei, ogni ragazza cadrebbe ai tuoi piedi hihihihihi che fascino, che virilità! Bravo cucciolotto mio, lecca, lecca, avanti!”, e a questo la padrona aggiungeva percosse e frustate per sollecitarlo.

Un compito particolarmente gravoso per lo schiavo era quello di tenere sempre in ordine la scarpiera della padrona, prima leccando per bene, poi pulendo le scarpe che la padrona aveva indossato.

Spesso la padrona applicava al pene del ragazzo una gabbia di castità per settimane, ben sapendo che la giovane età del suo cucciolo rendeva l’eccitazione sessuale particolarmente intensa e frequente. Col tempo la padrona aveva imposto allo schiavo di assistere segretamente ai suoi rapporti sessuali con i diversi amanti, che erano molto frequenti, dapprima soltanto acusticamente, poi sbirciando attraverso la serratura; il tutto, ovviamente, costretto dalla CBT.

Ma adesso la padrona aveva deciso di andare oltre. Tornata dal lavoro, schiaffeggiò lo schiavo (per puro divertimento), poi lo accarezzò con delicatezza sulla nuca, e gli sussurrò all’orecchio: “stasera è una serata particolare, dovrai assistere alla mia trombata con Giovanni, poi, dopo avermi ripulito la passera, ripulirai anche lui! Ti piace?”

Il ragazzo, perplesso, rispose: “no padrona, mi fa schifo, la supplico, non mi costringa a questo!”.

Lei: “Oh, povero il mio cucciolo! Lo farai, vedrai che ti piacerà, lo so che ti piace!”, accarezzandogli il pene e sentendo che era eccitato!

A qualche ora dall’arrivo del suo amante, portò lo schiavo in bagno; questo attese inginocchiato sul tappetino che la padrona si lavasse, e quando la padrona uscì, le infilò l’accappatoio con lo sguardo costretto sui piedi di lei. Poi si mise sdraiato e la padrona gli montò con tutti e due i piedi sul viso, asciugandosi. Diede un calcio in faccia al ragazzo, che, rialzatosi, le asciugò i capelli e le fece la piastra (ovviamente in castità). Poi la padrona lo fece mettere in ginocchio, si taglio le unghie dei piedi e le fece mangiare al ragazzo, che le raccolse dal pavimento con la lingua. Le smaltò poi le unghie di mani e piedi di rosso, asciugò lo smalto soffiando e si beccò un bel ceffone alla fine. Poi vestì la sua padrona con  calze a rete bianche, minigonna e scarpe col tacco alto, sempre bianche. Accarezzò il ragazzo e disse:

“Bravo il mio cagnolino, ti piaccio, vero?”

“Si padrona, è bella come una dea.”

“Pensa stasera che bel pisellone che mi gusterò, non come il tuo! Il tuo pivellino è destinato a rimanere nella sua gabbietta ancora per tanto, tanto tempo! Ihihihihi”

“Massaggiami bene le chiappe, voglio che stasera Giovanni le trovi belle sode e rilassate!”

Fu una tortura per il povero ragazzo, costretto a palpare con le mani il sedere della sua padrona mentre il pene premeva sulla gabbia di castità. Poi fu la volta dei seni. Per inasprire la pena, la padrona si inginocchiò accanto a lui, che era a quattro zampe, ed iniziò a strusciarsi su di lui, a toccare il suo pene, a leccarlo sotto il collo e a mordicchiargli le orecchie, ridendo e sussurrandogli: “Povero, povero tesoruccio mio,destinato a rimanere un fallito per il resto della sua vita, hihihihih”.

Dopo di ciò, disse che le scappava la pipì, orinò e dopo, mettendo la faccia dello schiavo nel water e chiudendogli sopra la tavoletta, tirò lo sciacquone. Poi lo schiavo dovette pulire la sua vagina: “Leccami la passera, so che ti piace tanto, lecca via bene tutta la pipì, su!” Lo schiavo leccò per alcuni minuti la sua vagina completamente depilata, assaporando le gocce di urina calda miste agli umori della padrona amarognoli.

Lo schiavo attese inginocchiato, mentre la sua padrona si sistemava il trucco, il rossetto e via dicendo; quando fu ora, il campanello suonò. Lo schiavo  andò ad aprire, ed arrivò Giovanni. La padrona lo accolse baciandolo profondamente sulla bocca. Lo chiamava “amore”,  ma Michele sapeva che era soltanto uno dei tanti che riempivano le serate della sua signora.

Fu costretto a spogliare l’uomo, togliendo prima le scarpe, poi i pantaloni e infine i calzini, che non emanavano un odore gradevole, accrescendo così l’umiliazione dello schiavo.

“Tesoro, è questo lo stronzetto che mi dicevi?”

“Si, è lui, vedrai stasera ci divertiremo ancora di più dell’altra volta!”

Si recarono tutti e tre in camera. Giovanni non era messo male fisicamente, e, quando si tolse le mutande, si rivelò ben dotato. La padrona si spogliò, e il suo amante iniziò a toccarle la passera, passando poi ai glutei, alla schiena, fino alle tette, mentre il povero ragazzo se ne stava inginocchiato ai piedi del letto a guardare. I due si baciarono, poi lei iniziò ad eseguire una fellatio: fece cenno col dito allo schiavo di avvicinarsi, poi avvicinò la testa di lui al pene che stava succhiando avidamente, orinandogli di annusarlo.

Poi lo spinse via col piede, e il suo amante iniziò a penetrarla energicamente, mentre lei gemeva sempre più forte. Lo schiavo osservava impotente, e, quando provò a rivolgere via lo sguardo, la padrona gli alzò la testa con la mano e gli diede un ceffone. Il rapporto continuò così per alcuni minuti, poi vennero quasi contemporaneamente. Si distesero.

“Amore, quanto sei stato bravo, mi hai fatta godere come mai nessuno”

“Anche tu sei stupenda, sei una gnocca da paura”.

L’uomo si rivolse al ragazzo: “Hai viso come si fa? Tu non la assaggerai mai in vita tua, guarda guarda che è meglio!”

La donna accarezzò e coccolò l’amante, poi chiamò lo schiavo:

“Sei contento che la tua dea abbia goduto?”

“Si padrona, sono molto felice”

Sapeva cosa lo avrebbe aspettato, ormai era rassegnato.

“Avanti piccino, puliscimi la fighetta”.

Lo schiavo esitò un attimo, quando vide lo sperma ancora caldo che le colava dall’inguine, vicino alla vagina.

“Che aspetti, leccalo!”

Lo schiavo provò un senso di disgusto, ma il fatto che era la padrona a costringerlo a questa azione lo eccitava  troppo. Leccò tutto lo sperma, anche quello che colava sulle lenzuola. Poi un ordine inatteso: “Lecca anche il pene, non vorrai sprecare tutto quel ben di dio, vero?”

Lo schiavo rimase immobile, tremolante, ma un calcio deciso sulla testa lo spinse a fare ciò che la padrona chiedeva: leccò bene la cappella dell’uomo, quel pene che ormai aveva perso vigore.

Ma questa azione mise in erezione il pene dell’uomo, che disse “Quanto lecca bene il tuo ragazzino, lo dovresti vestire da femmina la prossima volta, così senti tu che pompini che fa, quasi come i tuoi”. I due risero.

Poi la padrona infilò un profilattico sul pene dell’uomo, e ricominciarono il rapporto, che durò più del primo. Alla fine l’uomo venne, e Sara estrasse il preservativo pieno di sperma, si avvicinò allo schiavo, lo accarezzò in maniera provocante e gli fece vedere l’oggetto, dicendo:

“Guarda che bello, è caldo, devilo in fretta sennò si fredda ahahahahah”

Lo schiavo non ebbe scelta, la padrona spremette bene il profilattico nella bocca dello schiavo; non ancora soddisfatta, la padrona andò a prendere un grosso boccale da birra.

“Mi scappa la pipì, a te no?”

“Si, devo fare una pisciata stratosferica”

Risero e guardarono lo schiavo, che aveva lo sguardo fisso ai loro piedi.

La padrona fu la prima ad urinare nel boccale, poi fu il turno dell’uomo; lo schiavo bevve tutto, sotto lo sguardo dei due, che si ammazzavano di risate.

In fine, lo schiavo fu costretto a lavarsi la bocca con il colluttorio per molto tempo; tornato alla camera, fu fatto inginocchiare ai loro piedi, ed iniziò con quelli della padrona, poi passò a quelli dell’uomo, anche se riluttante. Questo disse:

“Sapessi che corsa che ho fatto per venire da te, stavo per perdere l’autobus, ho i piedi tutti sudati”

Risero tutti e due. Lo schiavo leccava le piante dei piedi, alternativamente dell’uomo e della donna, poi passava la lingua fra le dita. Sentiva la puzza dei loro corpi sudati, dei loro umori, dei loro piedi, che si mescolavano; ma sapeva riconoscere l’odore dei piedi della sua padrona, che ormai da tanto tempo era avvezzo a percepire.

Quando l’uomo andò via, a mattina inoltrata, la padrona chiamò il suo cucciolo: “Vieni piccolo, ma come sei stato bravo stanotte! Avrai un premio!”. Lo schiavo si avvicinò, speranzoso.

La padrona tastò i suoi testicoli, gonfi per l’eccitazione; tolse la sua gabbia di castità, poi permise allo schiavo di strofinare il suo pene sulle caviglie di lei. Lo fece aritmicamente, sempre più veloce, fino a quando la padrona non gli disse di fermarsi. Poi fece appoggiare al ragazzo il pene su uno sgabello ai piedi del letto, lei si sedette sul letto e schiacciò con il piede destro il suo membro.

“Dai, scopati il mio piede, fammi vedere se sei un uomo! Ahahahahah”

Lo schiavo obbedì, ed iniziò a muovere aritmicamente il corpo, facendo sfregare il suo membro martoriato sulla pianta del piede, che schiacciava forte. Alla fine lo chiavo riuscì a venire, anche se con molta fatica e dolore, copiosamente. Un getto caldo inondò lo sgabello e il piede della padrona; dovette ripulire il tutto con la lingua, poi la padrona schiacciò la testa dello schiavo a terra, mentre con la lingua cercava di raccogliere ogni singola goccia dal parquet.

Sentiva che quella sera era stata l’epilogo della sua discesa, che da lì in poi non sarebbe mai più potuto salire. Ormai era il suo giocattolo, in tutto e per tutto.

Age Verification

By clicking enter, I certify that I am over the age of 18 and will comply with the above statement.

Enter

Or

Exit
Always enjoy responsibily.