Dalla Russia con perfidia – parte IV

Il momento tanto temuto da Taty arrivò una sera in cui la piccola Natasha non era in casa, e che Mirco e Alena avevano voglia di giocare. In teoria, Tala doveva preparare e servire la cena ai due padroni di casa, ma nella pratica la maggior parte del lavoro dovette essere svolta da Taty, sotto la supervisione della filippina, che si divertiva a insultarlo e a deriderlo.

russian_mistress_08Nei tempi morti, Emanuele veniva fatto accucciare e costretto a leccare le scarpe di tutti e tre a rotazione; per divertimento, allo schiavo venivano inferti shock elettrici ai testicoli. Taty venne ad un certo punto fatta alzare in piedi e costretta a ballare goffamente, a ritmo di shock elettrici, sollevando le risate dei due commensali e della serva filippina. Man mano che i due padroni bevevano e si scioglievano, l’atmosfera si faceva sempre più calda, ed il povero Emanuele era sempre più preoccupato di cosa dovesse aspettarsi dalla matrigna.

Come se gli shock elettrici non fossero bastati,  ogni tanto Alena faceva assestare allo schiavetto un calcio o una ginocchiata sui testicoli da Tala. Verso la fine della cena, i tre si divertirono a tirare calci a turno, da dietro, alla sissy, che era stata fatta mettere a gambe divaricate. Ogni volta che si accovacciava per il dolore, gli veniva ordinato di rimettersi in posizione per il prossimo calcio. Questo supplizio durò per una ventina di minuti, fino a quando i tre non si stancarono.

La sua affettuosa matrigna, per farlo dissetare e recuperare un po’ le forze, versò del vino bianco sul pavimento, e glie lo fece leccare, incitandolo di tanto in tanto con qualche shock elettrico ai testicoli. Mentre Taty era immersa in questo compito, non proprio semplice, Alena iniziò a stimolare il pene del compagno con il piede. Lui invece cominciò a palparle il seno, per poi iniziare a limonare, incuranti dello schiavo che leccava il pavimento. Quando Mirco raggiunse il livello di eccitazione che ad Alena serviva, questa richiamò il figliastro con uno schiocco di dita, facendolo mettere in ginocchio di fronte al tavolo.

Poi fece abbassare i pantaloni di Mirco, dai quali spuntò fuori il suo grosso pene in erezione. Per la prima volta in vita sua, Emanuele si trovò faccia a faccia con un cazzo diritto: ne sentiva l’odore e ne vedeva le vene. Istintivamente, tese ad allontanare la testa all’indietro, ma uno schiaffo sulla nuca da parte della matrigna lo riavvicinò: non aveva molte chance, e il terrore di ricevere da un momento all’altro shock ai testicoli non gli lasciava scelta. Gli si accucciò accanto anche la filippina Tala, ridacchiando e stropicciandosi le mani: lo avrebbe dovuto “guidare” e correggere in caso di errori. Fu proprio lei a dirigere le danze, mentre Alena si limitava ad osservare, con il suo sguardo glaciale, dall’alto la scena, pronta col telecomandino in mano a imprimere gli shock.

Gli venne ordinato di baciare la cappella, poi di iniziare a succhiarla piano piano, coadiuvato dalla mano di Tala dietro la nuca. Spalancando la bocca sempre di più, e ingoiando sempre più in profondità, Taty cercava di fare del suo meglio per vincere la repulsione e il senso di oppressione che quel cazzo le provocava nella cavità orale. Ogni tanto doveva prendere aria per non strozzarsi.  Sentiva il sapore salato del liquido pre-seminale che iniziava a invischiarsi nel palato. La mano di Tala premeva sempre più forsennatamente, mentre Alena, con sguardo divertito e malizioso, lanciava qualche shock al povero figliastro, che faceva sforzi titanici per compiacerla.

Il compagno di lei, sempre più eccitato, aveva iniziato a muovere il bacino e a penetrare la bocca della sissy. Quando fu sul punto di venire, la perfida matrigna lo fece interrompere: voleva rendere il gioco ancora più divertente. Suo malgrado, Mirco estrasse il pene turgido dalla bocca dello schiavo, mentre quest’ultimo, affannato, riprese aria: il sollievo durò poco, dato che gli arrivò una scarica elettrica all’improvviso e un ceffone di Tala, tanto per diletto.russian_mistress_03

Si spostarono in soggiorno, e la sissy dovette seguirli a quattro zampe, mentre Tala la tirava per l’orecchio e le dava calci sulle chiappe.  Venne fatta mettere a novanta gradi, con la pancia su una sedia, e le mani legate alla gamba di questa. La filippina si mise lo strap-on, mentre Mirco si mise davanti alla faccia dello schiavo, impaziente di infilargli nuovamente il suo membro in bocca. Tala iniziò a penetrarlo da dietro, Mirco da davanti. La povera Taty faticava il doppio di prima, e per giunta perdeva la sua verginità anale: a fargli superare tutti quei tormenti era l’idea di compiacere la sua bella matrigna, che, a braccia conserte e col sorrisino appena accennato e con lo sguardo di ghiaccio, osservava divertita quel gioco.

La veemenza di Mirco aumentò sempre di più, in concomitanza con un intensificarsi degli shock elettrici da parte della compagna. Quando stette per venire, come concordato con Alena prima che tutto cominciasse, l’uomo estrasse il pene, e schizzò copiosamente sulla faccia del ragazzo: lo sperma era giallo, denso e maleodorante.  Seguirono grasse risate, shock in sequenza e schiaffi sulle schiappe. Mirco gli sbattè il pene in faccia, strusciandolo per pulire bene la punta, mentre Tala gli infilò nella bocca lo strap-on che aveva violato il suo orifizio anale.

L’umiliazione non era finita qui. Alena, infatti, lo insultò più volte in russo, dandogli della femminuccia e della troia, e decise di lasciarlo legato alla sedia, in quella posizione, con il volto coperto di sperma maleodorante. Gli sputò in faccia, e altrettanto fece Tala, ridacchiando come una stupidina.

Dopo di che, la filippina se ne andò a dormire, mentre la coppia si appartò in camera da letto per fornicare. Dopo quasi un’ora, la cagnetta venne slegata e le fu permesso di lavarsi e di coricarsi: come premio per essere stata brava, la matrigna la ricompensò con delle carezze sulla testa e con buffetti sulla guancia, e le fece baciare i suoi piedi. Amava quella vita, amava la sua matrigna e tutto ciò che faceva per umiliarlo e degradarlo sempre di più: questa era la sua strada, ormai.

Russian Mistress

Dalla Russia con perfidia – parte III

Taty, la sissy, stava pulendo e riordinando la scarpiera della sua padrona. Questa aveva una collezione pressochè sconfinata di scarpe di ogni tipo, colore e forma, da quelle più economiche a quelle più lussuose.Russian Mistress
Quando si trovava in quello sgabuzzino, circondata da tutto quel ben di Dio, Taty si sentiva in paradiso. Era una delle mansioni che svolgeva più volentieri, pur essendo il lavoro lungo, impegnativo e meticoloso.
Poteva sentire il profumo delle scarpe avvolgerla da ogni lato. Pulire le scarpe doveva essere un vero e proprio rituale, insegnatogli a suon di schiaffoni e frustate da Alena nel corso degli anni. Come prima cosa, doveva prendere in mano con delicatezza la singola scarpa, annusarla e baciarla dieci volte. Poi poteva iniziare a pulirla. Aveva l’obbligo di usare la lingua solo per le scarpe di uso comune, ad esempio le decoltee da lavoro o gli stivali. Ogni paio di scarpe aveva il suo posto, ed Emanuele doveva prestare molta attenzione nel riporle nel giusto ordine: al rientro, la sua matrigna avrebbe controllato e lo avrebbe punito al minimo errore.

La stessa operazione la doveva ripetere spesso anche per le scarpe della sorellastra, la principessina Natasha. Quest’ultima si divertiva sadicamente nel gettare di nuovo in disordine tutte le sue scarpe dopo che lo schiavetto le aveva sistemate.
Così che egli doveva ripetere il lavoro daccapo: se avesse potuto, avrebbe senz’altro preso a schiaffoni quella bimba insolente e dispettosa, che invece doveva chiamare principessa e alla quale doveva sottostare per volere di Alena.
Alla filippina Tala spettavano mansioni assai più leggere e sostenibili: anzi, questa spesso scaricava su Emanuele alcune delle proprie incombenze, dato che Alena glie ne aveva dato licenza. Anche se malvolentieri, Taty era costretta ad una certa sudditanza anche nei suoi confronti, il che era forse ancor più umiliante che non il dover sottostare alla sorellastra.
Spesso per punizione Alena costringeva il figliastro ad annusare e baciare le calze, i piedi sudaticci o le scarpe di Tala dopo che questa aveva lavorato.

Mistress Russa scarpe
Un giorno la perfida Alena decise che il percorso di femminizzazione del figliastro dovesse subire un salto di qualità. Per fare ciò, sapeva che l’indole sottomissiva e docile del ragazzo non era sufficiente, così come la castità forzata alla quale lo aveva costretto. Ci serviva, in defintiva, un altro strumento. Lo trovò informandosi sul web, sulle varie community a tema BDSM: era un dispositivo telecomandato che provocava uno shock elettrico ai testicoli.

Lo mise al collo dei testicoli di Taty, appena sotto la gabbia di castità, e lo testò immediatamente, inviando impulsi di intensità e durata variabile per vederne l’effetto sulla povera sissy, che trasaliva o si accasciava a terra in preda a fitte lancinanti. Nel vedere questa scena, Alena provava un piacere sottile, ridacchiando mentre il figliastro, a terra fra gli spasmi muscolari, la supplicava di smettere. Un congegno veramente diabolico: semplicemente spingendo un tasto, la Dea provocava al ragazzo un dolore di gran lunga superiore a quello di uno schiaffo, un calcio o una frustata, con uno sforzo nettamente minore.
Spesso, mentre lei e il compagno erano seduti sul divano, si divertivano a far ballare la troietta davanti a loro, sollecitandola con gli impulsi elettrici. Il percorso di femminizzazione era iniziato proprio dalle movenze di Taty, che doveva indossare anche le scarpe col tacco per quasi tutto il giorno. Anche la voce doveva essere la più femminile possibile, pena ripetuti shock elettrici ai testicoli. Si divertivano un mondo quando Taty finiva per cadere dai tacchi, mentre era sotto shock elettrico. Quando invece faceva la brava, Taty veniva premiata dalla padrona con una carezza.Mistress Russa

Una volta curate le movenze, la voce e l’aspetto fisico, arrivò il fatidico giorno di apprendere l’arte della fellatio e dell’irrumatio. Alena iniziò con piccoli strap-on di gomma, e la maestra incaricata di insegnare a Taty tale arte fu la filippina Tala, dato che la bella russa non si volle abbassare a tale livello di contatto con il suo schiavo. Nuovamente, Taty si trovò in ginocchio di fronte alla colf, alla sua mercè. Alena era lì, in piedi, a supervisionare la lezione e a punire il figliastro con gli shock se necessario.

Tala iniziò con il penetrare la bocca di Taty con falli di piccola dimensione, spingendoli sempre più in profondità nella gola della sissy, che faceva resistenza, tossendo e sbavando per terra. Man mano che avanzava nel percorso, e che aumentava sia la dimensione dello strapon che la profondità e la veemenza della penetrazione di Tala, Emanuele si abituò a prendere aria e a non tossire troppo, vincendo il senso di soffocamento. Dalla pratica della irrumatio passò poi alla fellatio: dovette imparare quindi a muovere il collo e a succhiare con sensualità sempre più elaborata il fallo. In questa fase gli shock erano frequenti e intensi, dato che aveva molto ancora da imparare. La lezione successiva sarebbe stata quella di succhiare il pene reale di un uomo.

Domiziana – parte V

piedi KarinaLa serata precedente si era tenuta la festa delle scuole, durante la quale Domiziana aveva conosciuto un ragazzo. Aveva ballato con lui per tutta la sera, poi si era appartata fuori, in intimità. Di quel momento di intimità, Domiziana aveva mantenuto un piccolo regalino da portare al suo schiavo, alla cena di Carolina dell’indomani.

Domiziana si alzò dal divano, e si diresse decisa verso il ragazzo, che aveva appena finito di nettare i piedi di Carolina. Gli sputò in faccia, allentandogli anche un ceffone.

“Fai schifo, leccapiedi di merda!”, e giù un altro schiaffone. “Ammazza che uomo!”, aggiunse, provocando l’ilarità delle altre. “Tu non sai nemmeno che significa essere un maschio, frocetto! Vero?” – “Si, padrona!”

“Carolina, per lo meno i piedi te li ha leccati bene?”

Carolina si afferrò la caviglia, guardando la pianta del piede: “Diciamo di si, dai! Almeno questo lo sa fare!”, disse, ridendo forsennatamente.

“Perché non ci fai vedere quell’affare inutile che hai fra le gambe?” disse lei. “Voi lo volete vedere?” chiese alle altre. Roberta: “Mah! Io non ci tengo proprio! Che poi siamo sicuri che ce lo abbia?”, disse.

Lui iniziò a provare paura: era già in mutande ed esposto allo scherno di tutte e tre le sue aguzzine. Ora avrebbe dovuto mostrare loro i genitali, non sapendo se oltre agli insulti avrebbe ricevuto anche calci sui testicoli.

“No, per favore. Pietà!”, provò a piagnucolare. Ma non vollero sentire ragioni, e dovette rimanere in ginocchio, nudo come un verme, dinnanzi agli sguardi deridenti e agli insulti di loro.

“Dove vorresti andare con quel coso?”, disse Roberta. “Non sarà nemmeno un decimo di quello di Simone”, aggiunse Domiziana. “Vediamo se lo sai usare almeno!”.

Venne posto di fronte a uno sgabello, in ginocchio, e gli ci venne fatto appoggiare il pene. Roberta glie lo schiacciò con la scarpa, provocando un urlo di dolore, prontamente soffocato da un ceffone. Carolina gli si mise dietro, per tenerlo fermo in caso si fosse dimenato per il dolore. Roberta continuò a schiacciare il membro dello schiavo, che divenne ben presto violaceo. “Mi vorresti scopare, non è così?” gli chiese Domiziana – “Rispondi!” – “Non ne sono degno padrona!”. La risposta non le piacque e lo colpì con un violento ceffone: “Non dire cazzate! Mi scoperesti, eh?”, urlò. “Si, padrona!”, dovette rispondere il ragazzo.

“Lo sapevo, porco schifoso che non sei altro. E secondo te io mi farei scopare da un essere lurido come te? Per di più con quel coso ridicolo che ti ritrovi fra le gambe? Guardalo!”, indicando il pene martoriato.

“Se stanno così le cose” – disse lei – ” scopati la scarpa di Roberta come scoperesti me. Avanti, fammi vedere!”.

Lui, rimasto attonito e ancora indolenzito, ebbe una smorfia di sofferenza. Cercò di far erigere il suo pene, schiacciato sotto la suola della scarpa di Roberta, e iniziò a sfregare tanto quanto gli era consentito dalle sue forze residue.

Il gesto meccanico gli costò non poca fatica, ma il suo pene stentò ad assumere durezza. Rimaneva morbido e floscio, e per di più la ragazza si divertiva talvolta a schiacciare più forte. Mentre il ragazzo eseguiva i movimenti, Domiziana e Roberta lo insultavano e lo riempivano di sputi, e Carolina iniziò a dargli dei morsi sulle spalle.

Ben presto gli venne l’affanno, e sentì una vampata di calore pervaderlo. In un ultimo, disperato sforzo, chiese il permesso di venire. Gli venne concesso, almeno quello, e un getto non troppo potente si riversò sullo sgabello e sulla suola della scarpa di Roberta.

“Che schifo!”, fu il commento di quest’ultima. Carolina invece lo fece alzare e gli diede una ginocchiata sui testicoli da dietro, facendolo piegare. “Guarda che casino che hai fatto, hai sporcato tutto lo sgabello. Adesso lo pulisci con la lingua!”

Piedi Arianna“Prima la scarpa” precisò Roberta; al che lo schiavo leccò il suo proprio sperma dalla suola, con colpi di lingua ampi e lenti. Ben presto la sua bocca si impastò di un sapore piccante, acre e disgustoso. Iniziò ad avere anche dei conati di vomito, repressi da un violento ceffone di Carolina. “Buono, vero? Questa è la tua cena! Ahahaha”.

“Inghiottilo!”, fu il perentorio ordine di Domi. Così fece, suo malgrado, e la smorfia di disgusto che ne seguì fece ridere tutte e tre le ragazze.

“Allora avevamo ragione, sul fatto che sei frocio!” disse Domiziana. “Proprio per questo motivo ieri sera ho pensato di portarti un regalo. Sai, mi sono divertita tanto con Simone.”

Che cosa aveva in serbo per lui? Cosa altro ancora avrebbe dovuto fare per compiacerla? Questi pensieri gli ronzavano in testa mentre lei era andata nell’altra stanza a prendere “il regalo”. Lo scoprì quando lei tornò, con sorrisino beffardo, tenendo in mano un barattolo chiuso. Dentro, un preservativo da cui fuoriusciva un filo di sperma giallastro.

“No, vi prego, questo no!” disse, spaventato quanto disgustato. Già ingerire il suo sperma era stato disgustoso: quel sapore pastoso e piccante gli riempiva ancora la bocca. L’idea di ingerire lo sperma di un altro, per di più del giorno prima, era ancora più vomitevole. Eppure era sottostato a tutte le umiliazioni e le vessazioni che gli erano state imposte, e non si sarebbe sottratto nemmeno stavolta.

“Noooo, dai! Ahahahah”, risero le altre due. Quando Domiziana svitò il coperchio del barattolo, uscì un odore nauseabondo di sperma stantio, tanto che la stessa si sventolò una mano davanti al naso, in un’espressione di disgusto.

“Senti che puzza, annusa! Forza!” disse, mettendogli il barattolo sotto al naso, e roteandolo per fargli vedere meglio il contenuto. “Dillo che era meglio la puzza dei miei calzini, eh?” lo sfottè Carolina.

Il ragazzo tossì e cercò di girarsi dall’altra parte, ma si beccò uno schiaffo da Domiziana, che lo afferrò per il mento e costrinse il suo sguardo verso il barattolo.

Fulminandolo con lo sguardo, gli ordinò, scandendo bene la parola: “L e c c a!”

A quel punto, Carolina lo afferrò per i capelli, reclinandogli il capo all’indietro. “Apri la bocca! Di più!” Mentre lui aveva la bocca spalancata, Domiziana ci fece percolare lo sperma, mentre le altre due guardavano incuriosite la scena.

Gli venne appoggiato il preservativo vuoto sotto al naso.

“Inghiotti!” disse Domiziana, chiudendogli la bocca con uno schiaffo sotto al mento. A fatica mandò giù tutto: il liquido era denso, freddo e dal sapore salato e amaro, molto più cattivo di quello ingerito in precedenza. Fu quasi per vomitare. “Ti piace la sborra, frocetto!” Iniziarono a canzonarlo, mentre lui era in ginocchio, nudo come un verme, con lo sguardo fisso al pavimento e il viso sporco dello sperma di un altro, ardente per la cocente umiliazione a cui era stato sottoposto.

“Mi sa tanto che ti dobbiamo trovare un ragazzo, frocio come te! Ihihihi”.

“Muoviti, vatti a lavare!”: a quest’ordine si alzò, credendo (e sperando) che la serata fosse finita. “Anzi, fermo!”, gli intimò Domiziana. “Vuoi sciacquarti la bocca? Anche se meriteresti di tenerti il sapore della borra di Simone fino a quando non torni a casa, tanto per ricordarti quanto sei sfigato.”

“Si padrona, vorrei sciacquarla se possibile.” rispose lui.

“Bene, Carolina è andata a pisciare, tra poco ti porta il colluttorio! “. Era ancora caduto nella diabolica trappola delle sue aguzzine. Poco dopo Carolina tornò con un bicchiere di plastica trasparente, contenete urina giallo scuro.

“Guarda che colore, sembra birra!” – “Che schifo! Daiiiii!” furono i commenti divertiti delle tre. “Sbrigati, bevila!”

“Padrona no, ti prego! Mi fa schifo!”

“Ti fa schifo? Ma come ti permetti? Hai bevuto la sborra di Simone, mi hai leccato i piedi sporchi e adesso il mio piscio ti fa schifo?” disse Carolina, scattando d’ira e ammollandogli uno schiaffone. “Domi, lo posso ammazzare di botte questo imbecille?” continuò, “Dai! Ahahaha”, rispose Domiziana.

Lo afferrò per i capelli e iniziò ad assestargli una serie di schiaffi sulla guancia destra: “De-fi-cie-nte!”, scandì, intervallando ogni sillaba con un ceffone. “BEVI!”, incalzò!

Riluttante e schifato, prese il bicchiere, e iniziò a bere a sorsi. Roberta, delicatina, non ce la fece ad assistere alla scena e si voltò a guardare la TV. Domiziana, con le braccia conserte, dominava dall’alto la scena, mentre Carolina, come di consueto, si assicurava che il ragazzo svolgesse il compito ordinatogli, pronta a intervenire qualora necessario.

Il sapore amarognolo dell’urina fece venire nuovamente i conati di vomito al ragazzo, ma rispetto a quello nauseabondo dello sperma assaporato poco prima gli sembrò quasi gradevole . Sorso dopo sorso, bevette tutto, sotto lo sguardo penetrante e umiliante delle due ragazze. All’epoca non esistevano i cellulari con le fotocamere, altrimenti sarebbe senza dubbio stato immortalato mentre si prestava alle umiliazioni impostegli. Ormai avrebbe fatto di tutto per la sua padrona, e, di riflesso, per le sue sadiche amiche: il suo orgoglio maschile era stato praticamente annientato durante il suo percorso di schiavitù.

Era ancora caduto nella diabolica trappola delle sue aguzzine. Poco dopo Carolina tornò con un bicchiere di plastica trasparente, contenete urina giallo scuro.

Dedicato a Luangel

Ho appena finito di prepararti la colazione. Sono in piedi, con un vassoio in mano, davanti alla porta della camera. Ti sei appena risvegliata da una notte passata con il tuo uomo.

Entro timidamente scostando la porta: so che non posso guardare il tuo volto, se non me lo concedi. Un rapido sguardo al tuo uomo, nudo, steso sul letto, che mi fissa con aria inespressiva; poi abbasso lo sguardo sul pavimento, e cammino lentamente per venire da te. L’unica cosa che il mio sguardo riesce ad intercettare sono i tuoi stivali neri, i tuoi splendidi stivali, conserti a terra, ed improvvisamente ho un principio di erezione. E’ una vera tortura: il mio sguardo è attratto magneticamente dal tuo corpo, dal tuo volto, devo reprimere a forza questa frenesia. Percepisco soltanto il tuo sguardo severo, ma sereno.

Mi inginocchio accanto al letto, con il vassoio in mano, rivolto verso di te. Vedo la tua candida mano afferrare una fetta biscottata con marmellata, le tue dita la cingono e la porgono al tuo uomo. Vi sento parlare, ridere, rilassarvi, mi sento imbarazzato per la situazione. Tu, con freschezza e spontaneità, continui a consumare la colazione che con devozione ti ho preparato: sorseggi il caffè, di tanto in tanto ti avvicini a lui, e lo baci (posso capirlo dal fruscio delle coperte e dallo schiocco quasi impercettibile).

Attimi interminabili di silenzio: sento il profumo della tua camera, della tua pelle, che mi inebria. Di tanto in tanto la tua mano fa capolino sul vassoio, e ad ogni suo movimento il mio cuore ha un sussulto. Posso vedere le tue unghie, il tuo smalto che riluce, l’eccitazione sale come un vulcano. Sento il bruciore dei graffi che ieri le tue unghie mi hanno lasciato sulla schiena, riaccendersi come una candela: il suo calore si mescola al turbamento.

Hai preparato una prova per me, una prova difficile. La sto per scoprire. La tua mano sfiora la mia guancia, avvolge il mio mento: sento la morbidezza della tua pelle, il dolce solletico che le unghie producono. Sollevi la mia testa, e la rivolgi a te. Il tuo sguardo angelico, i tuoi occhi penetranti, la tua bocca velata di un sorriso, emergono dalla cornice dei tuoi soffici capelli. Finalmente la sete che mi aveva arso fino ad ora si placa attingendo alla sorgente del tuo volto, il volto della mia padrona.

Basta. Ora indirizzi il mio sguardo al membro del tuo uomo, turgido. Inizi a masturbarlo: vedo la tua mano palpeggiarlo, carezzarlo, percorrerlo, divorarlo, mentre pulsa e freme del piacere che gli stai donando. Il tuo uomo geme, mentre con l’altra mano percorri il suo petto, e le tue unghie, come spighe d’oro, ondeggiano su di esso. Un’esplosione di piacere, un grido, un’eruzione improvvisa travolge la tua mano. Raccogli il frutto del suo piacere, mentre la tua mano si ricopre lentamente; la fai scivolare diverse volte sul seme, le muovi sensualmente, per raccogliere tutto quel nettare versato in Tuo onore. Mi sento esplodere, la mia temperatura sale senza controllo.

Mi porgi la tua mano, la sbandieri davanti al mio viso.

Fremo, tremo. Di emozione, di eccitazione, di paura, di rabbia.

Sento l’odore penetrante e sgradevole dello sperma pervadere il mio naso. Tu non dici nulla, continuando a mostrarmi la facile vittoria della tua battaglia.

Poi le tue labbra, con delicatezza e decisone, pronunciano l’ordine aspettato e temuto, un tono di voce sommesso, lieve: “Pulisci!”

Luangel 2Avvicino la mia bocca: un conato e un senso di disgusto mi assale, sto per disobbedire. Al mio interno una battaglia. Basta concentrarmi sulle tue dita, sulla forma della tua mano che tanta goduria sa donare, sulle unghie rilucenti di un ambra acceso. L’ammutinamento delle mie pulsioni è sedato. La mia passa sul dorso della tua mano, e scivola rapidamente sul mignolo, raccogliendo la densa coperta che lo avvolge. Un sapore pastoso e acre invade la bocca. Sono di nuovo alle prese con i conati di vomito: non posso permettere che banali indisposizioni del mio corpo possano opporsi a Te, unica Dea e loro Padrona. La mia lingua ora raggiunge l’unghia, inizio a suggerla: proprio la dolce sensazione delle unghie che premono sulla mia lingua e sfiorano il palato vale a portare al trionfo la libidine.

Attimi interminabili. Poi, di colpo, il tempo accelera: ora lecco il palmo, scivolo sulle vene, mi inoltro fra le dita. La tua mano si scioglie nel tepore della mia bocca. Succhio come se fosse un capezzolo materno l’anello, fino a farlo splendere, come fosse nuovo: il freddo improvviso del metallo è come un tuono, che mi scuote nel profondo delle mie viscere.

Mi accarezzi sulla guancia, poi sui capelli: sento ogni mia tensione dissolversi, il mio corpo affondare nel mare di delizia che mi stai donando. Mi premi, perché ho saputo vincere la difficile prova alla quale hai voluto sottoporre il tuo fedele cucciolo. Sono nell’empireo, sono su un Olimpo di beatitudine, circondato da ninfe e zefiri.

Ma hai deciso di darmi più di quanto già sta appagando il mio sforzo. Hai deciso di portarmi al culmine della felicità. Mi stai per concedere un onore cui soltanto pochissimi uomini hanno potuto accedere. Il massimo che un fedele schiavo può ottenere dalla sua padrona.

Nuovamente, indirizzi su di te il mio sguardo, sorridendomi. Mi accorgo che anche il tuo uomo sta ridacchiando con te, ma la sua figura si dissolve improvvisamente alla vista delle tue labbra.

Rimango come paralizzato, a fissarti negli occhi. Poi la tua mano indica in basso. Sono confuso, sono in preda ad una vertigine. Percorro il tuo braccio, la tua mano, le tue gambe lisce, quasi scolpite da un Michelangelo. Fino ad arrivare ai tuoi magnifici piedini. Uno schiaffo mi incita ad agire, a vincere il mio timore. Mi avvicino tremolante, carponi, alle tue estremità.

Profumano di sapone, di crema, di cuoio. Di te.

Quell’odore mi inebria. Mi avvicino sempre più a quella sorgente miracolosa. Le mie labbra sfiorano le piccole dita, l’alluce, il dorso, poi la pianta, che emana un piacevole tepore, scaldandomi la guancia. I talloni, ammorbiditi dalle coperte. La cavità fra la pianta e le dita. Bacio innumerevoli volte quel Paradiso che si staglia di fronte ai miei occhi. Quante volte ho agognato quella meta! Quante volte la vista di quei gioielli mi ha dato la forza necessaria per esaudire i tuoi voleri. Ora sono qui, nella mia bocca. Nella mia anima. Divento un tutt’uno con loro, li avvolgo. Inizio a leccarli, assaporandoli. Il tempo si ferma, i battiti del cuore risuonano ovunque. Un dolce sapore di mare riecheggia nella mia bocca.

Mi faccio prendere dalla frenesia. Un tuo calcio sul viso mi riporta alla realtà. Mi porgi l’altro piede. Mentre lo lecco, rifletto su quel lieve dolore che l’impronta del piede ha lasciato sulla mia guancia. Mi ricorda che appartengo a Te, che la parte più aulica e regale di me deve chinarsi e assoggettarsi alla parte più umile e marginale di Te, del tuo corpo. Che solo Tu hai potere sul mio piacere. Sono vittima di un incantesimo, un Merlino intrappolato dalla sua Viviana, destinato a perdurare in eterno.

Nuovamente, un tuo calcio mi riporta alla realtà. Il tuo piede, poggiato sulla fronte, mi spinge via. Hai deciso che è abbastanza per me, che ho avuto anche troppo. Ti ringrazio, vorrei mostrarti la mia gratitudine, ma non troverei il modo. Bacio per l’ultima volta il tuo piede.

Ora le tue attenzioni rifuggono totalmente da me. Continui a intrattenere il tuo uomo, mentre io, liberatomi da ogni tensione, torno ai compiti che mi hai assegnato, con un entusiasmo incontenibile. Sarei pronto, per te, a sostenere le fatiche di Ercole. Scalerei per te l’Everest. Troveri la forza per esaudire qualsiasi tuo desiderio. Sei e sarai per sempre la mia Padrona.

Schiavo di una coppia di colore – parte II

L’ulteriore “salto di qualità” il ragazzo lo fece quando la coppia iniziò a scambiarsi effusioni amorose in sua presenza: dai baci, alle carezze nelle parti intime, fino ad arrivare a denudarsi entrambi in mentre lui era in ginocchio al loro cospetto, costretto ad osservare immobile per ore. Oppure i padroni erano soliti lasciare il loro cagnolino accucciato fuori della porta della loro camera mentre avevano rapporti sessuali, in modo tale che potesse sentire i loro gemiti e grida di piacere.

Il cucciolotto era stato in seguito educato ad assistere direttamente ai loro rapporti, senza potersi nemmeno toccare:doveva rimanere con la faccia prossima ai loro piedi (che, alla fine della giornata, puzzavano parecchio) ad inalare la puzza e a beccarsi di tanto in tanto dei calci in faccia (intenzionali o dovuti alla foga); andava in estasi nell’inspirare quell’odore intenso ed acre, un mix fra l’odore della pelle tipico delle persone di colore, quello delle scarpe di cuoio della donna e quello delle scarpe da ginnastica dell’uomo. Alla fine doveva ripulire i loro sessi: doveva leccare via lo sperma dalla figa della padrona (che aveva delle grandi labbra scure) e, dopo aver vinto una riluttanza fortissima, anche il membro del padrone, che all’inizio sembrava non gradire molto . Dario si sentiva al sommo dell’eccitazione quando, alla fine, stava per ore intere inginocchiato ai piedi del loro letto, nudo, con il senso di costrizione e prostrazione che gli davano le catene legate ai suoi polsi, con le ginocchia doloranti, il sapore acido di sperma che riempiva la sua bocca, l’odore dei piedi e dei corpi dei due padroni (addormentati) che permeava le sue narici, fin quando alla fine non cedeva e crollava sul pavimento, addormentandosi anch’esso.

Una volta la sua padrona lo chiamò, e Dario entrò a quattro zampe nella loro stanza, trovandoli uno di fianco all’altro completamente nudi. Con un dito gli ordinò di accucciarsi. Gli fece cenno di avvicinarsi, poi lo prese per i capelli e lo avvicinò al cazzo moscio di Patrice: sembrava enorme anche così, e poteva percepirne l’odore nauseabondo.

“Faglielo venire duro!”

L’uomo, disgustato, disse:

“Amore, ma che schifo, me lo devo far prendere in bocca da questo schifoso?”

La donna iniziò ad accarezzarlo, a biaciarlo, dicendogli:

“Dai amore, fallo per me, vedrai che ti piacerà, fai finta che sia io a succhiartelo…mmm”

“Va bene, per stavolta, forza, frocetto, succhiamelo!”

Il ragazzo lo prese in bocca, vincendo un conato di vomito, ed iniziò a fare su e giu. Immediatamente ricevette uno schiaffone dalla padrona:

“Sei un buono a nulla, si fa così un pompino? Ti sembra che io glie lo ciucciavo così?”

Dopo aver spiegato allo schiavo il modo corretto per eseguire la fellatio, e dopo diversi ceffoni correttivi, il povero Dario continuò a succhiare avidamente quel grosso cazzo, al confronto del quale il suo era un moscerino. Sentiva le vene pulsare di piacere e il sapore della cappella riecheggiare nella sua cavità orale. Un misto di vergogna e di disgusto fecero arrossire il ragazzo, e pensò a quale sarebbe stata la pessima figura che avrebbe fatto se solo qualcuno lo avesse saputo.

Il membro dell’uomo, a contatto con la saliva calda, subitamente si indurì, ma per continuare a rimanere eccitato Patrice dovette concentrare intensamente l’attenzione sulle tette e sulla gnocca di sua moglie, iniziando a succhiare i suoi capezzoli. Sempre più eccitato, prese il ragazzo per i capelli ed iniziò a muovere la sua testa con violenza e ritmicamente, mentre Dario, sentendo il cazzo toccarli il palato e scivolare veementemente fino alla gola, iniziò a tossire. L’uomo stava per venire, ma l’intervento della donna allontanò la testa dello schiavetto: accarezzò il pene, che aveva dimensioni impressionanti, e, sentendo che era duro al punto giusto, diede due schiaffetti sulla guancia di Dario.

Da allora in poi ci fu un accordo fra i due coniugi: ciascuno avrebbe potuto usare il ragazzo per il sesso orale. E così il povero disgraziato venne costretto più volte ad eseguire cunnilingus alla padrona, mentre l’uomo lo usava ripetutamente per farsi fare pompini e irrumatio: al povero Dario non era concesso provare alcun piacere (spesso, nel vedere il suo membro eccitato, i padroni si divertivano a farglielo afflosciare con calci sui testicoli), se non, alla fine della giornata (e anche qui dipendeva dall’umore di Miriam) di potersi masturbare ai loro piedi, venire sulle loro scarpe e leccare poi il tutto; spesso però la sadica Miriam lo colpiva con calcetti sulle palle per rovinare il suo orgasmo.

Ormai era diventato un giocattolo sessuale, una troia pompinara, il suo orgoglio maschile era stato pressoché annientato: ma proprio per questo si sentiva ormai indissolubilmente legato a quella che sembrava essere diventata la sua seconda famiglia. Era completamente nelle loro mani.

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