Dalla Russia con perfidia

Piedi KarinaLa sua matrigna russa, Alena, lo aveva lasciato, vestito da sissy maid, a pulire la cucina.
Da quando aveva perso entrambi i genitori naturali, Emanuele era andato incontro ad un atteggiamento sempre più freddo e cinico da parte di quella bella signora russa, che pure, quando il padre era ancora in vita, sembrava averlo accolto come un figlio.
Ora aveva appena raggiunto la maggiore età, ed era diventato uno schiavo, un giocattolo nelle mani della sua matrigna e della sorellastra, Natasha (quest’ultima, ancora fanciulla, ma resa viziata dal modo in cui la madre la aveva cresciuta).
Al cospetto delle Dee, doveva sempre stare in ginocchio, non usciva mai di casa ed era costretto a svolgere lavori domestici gravosi, accanto alla giovane inserviente filippina, Tala. Ad ogni minima mancanza, era punito nel modo che la sua matrigna riteneva più opportuno. Gli schiaffi, i calci e gli sputi erano all’ordine del giorno.
Chiunque, dall’esterno, avrebbe giudicato tutto ciò come violenza, vessazioni e abusi. Non sapendo che, nel suo intimo, Emanuele era ben lieto di servire la sua bellissima matrigna, e gioiva delle continue umiliazioni alle quali era sottoposto.
Anche il dover sottostare ai capricci della sorellastra, che pure era ancora una bambina, non faceva che aumentare quel senso di eccitazione che faceva di lui uno schiavo per natura: d’altra parte, anche ciò rientrava neglio obblighi che, nel tempo, Alena gli aveva imposto con freddezza e distacco.
La bella donna dell’est, ora benestante e in carriera presso l’ambasciata, aveva avuto gioco facile in questo: quando il ragazzo era ancora un virgulto, agli albori dell’adolescenza, lei aveva scoperto una gran quantità di materiale virtuale a tema Femdom in una cartella del PC: pur non anvendolo mai detto apertamente, aveva sfruttato a suo vantaggio, con un acume e un calcolo tipicamente femminile, la debolezza del ragazzo.
Ora, totalmente umiliato e degradato, era un semplice oggetto ad uso e consumo di lei, e un giocattolo per sua figlia.

Piedi BambinaLa bambina era quasi una Barbie in carne ed ossa: bionda e bella come la mamma, amava vestirsi con vestitini rosa e tingersi le unghie di mani e piedi di uno smalto vuola con i brillantini. Aria di superiorità e sufficienza, occhi azzurri, amava farsi preparare la colazione dal suo fratellastro, schiaffeggiandolo in continuazione, anche per gioco. Le piaceva truccarlo come un bambolotto, e lo usava spesso come tale, facendolo baciare con le sue bambole.
Si faceva da lui chiamare “principessa”, e spesso gli metteva i piedi in faccia, facendoglieli annusare.
Lo usava anche come pony, facendosi portare in giro per la casa. Talvolta doveva essere la madre a porre un freno al brio giovanile della bambina.
La bellezza di Alena era, per il ragazzo, eterea e irraggiungibile, visto che lei, degnandolo quasi nemmeno di uno sguardo, non gli permetteva il contatto diretto con il suo corpo, non fosse per farsi baciare scarpe e piedi quando rientrava in casa.
Per disciplinare la sua sissy, le aveva imposto una chastity built: per Emanuele, ribattezzato Taty, questo era il fardello più pesante da portare, dati i bollenti spiriti dovuti all’età e agli ormoni in circolo, e al fatto di avere una gnoccona di un metro e novanta come matrigna.
Alena, dagli occhi di ghiaccio, sapeva passare da un atteggiamento freddo, distaccato e algido a uno deridente e umiliante, a seconda di come le girava: nel secondo caso, non si risparmiava di ricordare al ragazzo la sua scarsa virilità, il suo fisico gracile e di aspetto non gradevole, e il fatto che sarebbe stato per sempre un essere inferiore alla sua completa mercè.

Piedi Russa
Per umiliarlo ancora di più, e per ribadire la sua superiorità slava, aveva iniziato col tempo ad impartirgli gli ordini in lingua russa. Il povero Emanuele, quando non capiva, veniva sgridato e schiaffeggiato: di necessità virtù, pian piano aveva assimilato i comandi della matrigna e della sorellastra, e scattava per esaudirli.
Sventolava spesso la chiave della gabbia di castità, appesa ad una cavigliera oppure alla collanina, davanti alla faccia del ragazzo, ricordandogli di avere il controllo assoluto sulla soddisfazione dei suoi istinti sessuali. La castità poteva durare anche settimane, a discrezione della matrigna. La soddisfazione dei bisogni sessuali avveniva nel seguente modo: una volta liberato il membro di Taty, che istantaneamente diventava turgido, egli aveva il permesso di masturbarsi, in ginocchio sul pavimento e con lo sguardo rivolto in basso, tutto sotto lo sguardo fisso e glaciale, a tratti beffardo, della padrona, che a volte batteva la punta della scarpa sul pavimento, come a comunicare di fare rapidamente, oppure faceva commenti sulle dimensioni del pene di Taty.

Piedi BambinaQuando finalmente lo schiavo schizzava sul pavimento, la matrigna schioccava le dita e indicava in basso: era il segnale che lo schiavo doveva provvedere a pulire il frutto della sua agognata concupiscenza con la lingua. Si accucciava e iniziava a leccare ogni goccia, mentre lei gli premeva la scarpa in testa per umiliarlo ancora di più. Finita la pulizia, il pene veniva di nuovo recluso a forza nel suo angusto guscio, non sapendo quando sarebbe potuto tornare di nuovo libero.
Accadeva raramente che anche Tala, la servetta filippina, venisse coinvolta nelle umiliazioni della povera Taty. Quando Alena era di buon umore, faceva mettere a Tala il sedere sulla faccia del ragazzo, che si masturbava fino a schizzare sui piedi, odorosi e sudaticci, di questa. Poi, ovviamente, li doveva ripulire con la lingua. In tali frangenti, la pena dello schiavo era resa leggermente più piacevole.
Presto Alena aveva portato un compagno stabile a casa loro. Emanuele, detto Taty, aveva dovuto iniziare a servire anche lui, che si era reso sempre più complice della compagna nel dominare il figliastro.

Domiziana

Piedi Smalto

Divenne lo schiavo di Domiziana col passare del tempo.

Se ne era innamorato fin dalla prima adolescenza, quando dalla finestra la vedeva, ancora bambina, giocare con le amichette a nascondino sulla strada, durante le serate estive.

Col crescere, durante la sua prima adolescenza, aveva mantenuto quella freschezza e quella vivacità che aveva da bambina, un fisico molto ben proporzionato, lunghi capelli che le scendevano

lisci sulle spalle e che le donavano ancora una sembianza bambinesca. Era corteggiata dai ragazzi del suo paese, ma difficilmente si concedeva a qualcuno, continuando a vivere nel suo mondo dei sogni.

Le prime esperienze amorose, le prime serate in discoteca, le uscite fuori con le amiche le avevano dato sicurezza di se.

Lui aveva vissuto nel chiuso della sua timidezza, adorandola come una dea e facendone la padrona di tutte le sue fantasie. Nessun gesto concreto nei confronti di lei: una parola, un saluto, un gesto di ammirazione. Talmente grande era il senso di inadeguatezza di lui.

Poi, nel corso degli ultimi due anni di liceo, aveva iniziato a fare dei maldestri tentativi di avvicinamento, che ogni volta avevano avuto l’effetto di indisporla. Pian piano, lei aveva iniziato a respingerlo, poi a maltrattarlo ed umiliarlo quando tornavano da scuola in treno. A volte lo picchiava e gli dava dei sonori ceffoni sulle guance.

Lui non si sottraeva a tutto ciò: anzi, il sentirsi alla completa mercè della sua dea gli procurava uno strano senso di eccitazione. Più veniva maltrattato e usato come valvola di sfogo da lei, più continuava a starle sempre vicino. Avrebbe fatto tutto ciò che lei gli avesse chiesto.

Un giorno cambiò tutto. La migliore amica di lei infatti le suggerì di schiavizzarlo. La bizzarra idea iniziò a fare breccia nel carattere coriaceo di Domiziana, che iniziò a fare lui richieste umilianti mentre erano sul treno o in giro per il paese. Gli chiedeva di prendersi a schiaffi da solo, poi di pulirle le scarpe: una volta gli fece pulire, oltre che le sue scarpe, anche quelle di tutte le sue amiche, mentre erano ad una festa, in disparte. Se non faceva bene il lavoro, lo prendeva a schiaffi o a calci sui testicoli.

piedi Karina 3Le punizioni di Domiziana erano sempre accompagnate dal suo pungente sarcasmo: amava umiliare il suo schiavo e farsi chiamare padrona di fronte alle sue amiche. Una volta, ad una festa di compleanno, gli ordinò di baciarle le scarpe: nonostante l’imbarazzo, lui non si sottrasse all’istinto che aveva di accontentare la sua padrona. “Sei proprio uno schifoso!”, le aveva detto lei, allontanado la sua faccia con un calcio assestatogli sulla fronte. “Dato che ti piace tanto, bacia anche quelle di Carolina”. Il ragazzo così aveva fatto, con lo stampo della scarpa di Domiziana ancora sulla fronte.

Più il tempo passava, più il piacere di avere un ragazzo a sua completa disposizione si impossessava di Domiziana. Iniziò a chiedergli di regalargli costosi profumi, e lui, ancora studente liceale senza un quattrino in tasca, spendeva quel poco che aveva per la sua padrona.

Ad una festa di diciotto anni di un loro amico, Domiziana venne con un paio di belle scarpe bianche col tacco. Lui chiese di poterle baciare, ma lei si rifiutò: aveva ben altro in mente. “Baciare è troppo poco!”, disse, “me le devi leccare!”. Il ragazzo simulò sdegno, ma nel suo intimo non vedeva l’ora di degradarsi ed annullarsi fino a questo punto per lei. Così si appartarono nella macchina di un loro compagno, assieme all’amica Roberta. Fu lì dentro che Domiziana lo prese per i capelli, schiaffeggiandolo e ordinandogli di leccarle le scarpe. Rispetto a sua sorella, che era una vera e propria maestra nel dare schiaffi, Domiziana era ancora maldestra e troppo impulsiva. Alzò il piede e lo porse al ragazzo, che iniziò timidamente a leccare le scarpe, mentre la sua dominatrice lo guardava ferma: nel suo sguardo, trapelava derisione, compiacimento nell’avere un ragazzo ai suoi piedi, pronto a fare qualsiasi cosa per lei, e divertimento. Intanto Roberta, inzialmente schifata dalla scena, aveva preso a deriderlo, e ogni tanto lo schiaffeggiava.

“Guarda che schifoso, sei una merda!”, e ridevano entrambe. Poi Domiziana chiese all’amica se volesse provare anche lei a farsi leccare le scarpe: inizialmente si rifiutò, ma poi l’idea iniziò a stuzzicarla: “Lecca quelle di Roberta adesso!”. A nulla servirono le (simulate) obiezioni del ragazzo, che nulla poteva fare se non obbedire alla sua padrona. Così iniziò a leccare le scarpe a Roberta: il sapore della polvere gli impastava la bocca, ma l’eccitazione della situazione era tale da farlo procedere con sempre più convinzione e veemenza. Fino a quando le due non lo fecero smettere, respingendolo.

Tornò da quella festa eccitato all’inverosimile, e si dovette masturbare non appena messo piede in casa. Chissà cosa lo avrebbe atteso nel futuro.

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